Breve storia del diritto d’autore
E’ nel ‘700, con la rivoluzione industriale e con nascita di un corpo sociale intermedio (la borghesia), che emerge l’esigenza di tutelare quelle “opere dell’ingegno” che ancora oggi il diritto d’autore protegge. Mentre la nascita dell’industria poneva la problematica di monopoli, licenze, e patenti sui nuovi processi o macchinari (brevetti), la nascita di un’industria culturale e ricreativa laica, non scevra da condizionamenti della politica e della morale, vide imporsi una classe di paladini della Cultura (gli impresari teatrali) che ”“in un mondo senza radio e televisione”“ esercitavano un mestiere la cui materia di base (il contenuto creativo) era il loro effettivo patrimonio.
Per questo le prime leggi consentivano all’autore di ricevere una remunerazione per lo sfruttamento commerciale delle loro opere da parte, appunto, degli imprenditori teatrali; questi ultimi infatti avevano l’effettivo accesso al pubblico e sostenevano il rischio del confronto con il mercato, affrontando i costi di produzione, prima di aver la certezza del pareggio economico della loro attività . E proprio per le esigenze di costoro nacque il diritto d’autore come oggi lo conosciamo.
Non si può non accennare alla bipartizione tra opera in senso materiale ed in senso metafisico. In pratica il manoscritto (inteso come bene mobile corporale) e il suo contenuto, identico nel manoscritto stesso, nelle sue esecuzioni verbali o musicali, nelle copie dei libri a stampa che da questo si traggano.
Le millenarie categorie del Diritto Romano (proprietà , possesso, detenzione, bene mobile o immobile) non erano più adeguate alla circolazione di diritti sdoppiati: quelli dell’autore (del manoscritto) e quelli dell’impresario che il manoscritto (fisico) ha acquisito per immetterlo nell’industria culturale, in un’ottica di profitto.
All’origine (siamo ora nell’800), il diritto esclusivo d’autore, (quindi, dopo la cessione, il diritto dell’editore), che oggi si estende per circa un secolo (dall’istante della creazione dell’opera ”“ es: quando salviamo il file – al 70mo anno dopo la morte dell’autore), aveva una durata media nei vari ordinamenti europei di 7 anni, poi 12 e infine 14, raramente si arrivò ai 20 anni.
In verità , ancora oggi le categorie della Proprietà Intellettuale dell’opera dell’ingegno (intesa come corpus separato dal “supporto” che ci permette di percepirla) e di Bene Immateriale sono difficili da apprezzare, non facili da paragonare al restante mondo del “diritto naturale” a noi chiaro quasi per intuizione o riflesso condizionato. E’ come introdurre nuove teorie che superano la bidimensionalità della geometria euclidea, sulla quale sola eravamo abituati a ragionare. La circolazione delle traduzioni di una stessa opera attraverso diversi sistemi statali, ha da tempo remoto imposto una regolamentazione internazionale, basata sul riconoscimento reciproco della validità della tutela in uno stato, secondo le leggi di uno stato, che a sua volta riconosca validità interna a quelle di tale altro stato. La convenzione internazionale sulla tutela delle opere letterarie è stata stipulata a Berna nel 1883, e ancora oggi i suoi principi dettano i riferimenti essenziali in tema di rapporti tra tutele giurisdizioni straniere.

Un nuovo contesto
Molte novità tecnologiche hanno determinato l’ampliamento e la formazione di regole nuove inquadrabili non solo nel diritto di autore, ma in quello dei marchi, modelli e brevetti, che oggi vengono indicati “diritto della proprietà industriale”.
A me piace ricordare che nella legge italiana sul diritto di autore, è contenuto un “antidoto naturale” all’invecchiamento della stessa, ove questa parla delle copie “comunque prodotte”, in tal modo lasciando aperta una porticina verso il futuro per la tutela di legge alle novità della tecnica.
Altre volte il meccanismo è meno palese, me non per questo meno efficace. Per esempio in materia di diritto sull’opera fotografica, un comma della legge distingue tra la consegna di una stampa dell’immagine, e la consegna del negativo dell’immagine, che determina la presunzione della cessione dei diritti. Ma negli anni ’60, venti dopo la promanazione della legge, è stato inventato il procedimento di sviluppo ad inversione (dia-positivo) e in tali casi il “negativo” semplicemente non esiste. La legge perde efficacia? O anzi la consegna del dia-positivo (e non di un suo duplicato) lascia presumere la cessione dei diritti? E cosa allora nel momento attuale, ove in ambito digitale NON esiste più altro che un FILE (res corporalis?) oggetto identico al FILE (copy) che viene teletrasmesso? Altro l’ambito, tecnologico, identica la tematica legale.
Sui FILE e su cosa legalmente siano vi sono tante opinioni, giacché il termine “dato” sembra tanto semplice che non occorra definirlo. Invece occorre, ed infatti le norme più recenti vi provano. Un esempio interessante riguarda la punibilità del (voluto) danneggiamento del dato informatico. Infatti il diritto penale in tema di danneggiamento, richiedeva l’esistenza della cosa danneggiata, cosa in senso corporale, fisico, materiale, res in latino.
Tale il dato NON è: un floppy è un floppy (disk) sia quando è “formattato” che quando è “smagnetizzato”. Un’interessante sentenza cercava di dare rilevanza legale al diverso “orientamento magnetico” delle molecole di ferro-como spalmata sulla superficie del supporto sintetico del floppy, cercando di ipotizzare in queste molecole, anche se a livello “microscopico” la RES corporale “fisicamente danneggiata” prevista dal diritto penale. Lodevole sforzo di fantasia, ma di fatto, applicazione illegale di un principio penalistico che “effettivamente” tutela le cose e non l’orientamento magnetico delle molecole.
Ma la “lacuna” normativa (assenza di tutela legale del “dato” in una società dove questo assume importante valore socio-economico) è stata colmata dalla legge, che nel 1994 ha introdotto una serie di “reati informatici” dove chiaramente emergono nuove responsabilità connesse alla pirateria ed alle frodi finanziarie commesse con carte magnetiche o computer.
Orbene: molti dovrebbero sapere che, come il “dato” informatico non “esiste” (secondo le tradizionali categorie reali) anche internet non esiste, aldilà dell’infra-struttura tecnica che ne consente il funzionamento (binomio hardware software, in altre parole, accrocchio di cavi, router e server).
Ma se affermiamo che internet in sé non “esiste” commettiamo il solito errore di misconoscere mezzo e fine, di mescolare il corpo fisico al corpo mistico; il manoscritto e l’opera (ivi) iscritta. Internet è un PROTOCOLLO di comunicazione tra macchine, volto all’interscambio di dati. Ecco tutto. I dati acquistano valore, internet acquista valore, la new economy decolla in borsa (20 anni dopo).
Internet è anche una complessa serie di accordi, contratti, convenzioni leggi e regolamenti (le “naming authorities” sono Enti che si fondano su un complesso ed ormai sedimentato sistema normativo). Ma soprattutto internet, che è considerato un nuovo “settore di mercato” vede regolamentare in maniera sempre più dettagliata, le attività che appunto in tale “settore” le forze economiche pongono in essere.
I timori di frodi e utilizzi illegali danno atto a normative di trasparenza e obblighi di conservazione dei file di log, e di identificazione dell’utente, e tali normative richiedono l’emanazione di altre, poste a tutela della “privacy” e del corretto utilizzo di quei “dati” che offrano informazioni sensibili sulle abitudini di vita e sugli orientamenti personali degli utenti, quali spesso considerati come “consumatori” vanno protetti come parti “deboli” in un rapporto economico con enti ed aziende dal maggiore potere economico e giuridico. In tal senso importante ad esempio la direttiva europea sulle corrette modalità di svolgimento delle transazioni di commercio elettronico.
E proprio l’atteggiarsi del commercio in internet offre scenari interessanti per immaginare in che direzione nel futuro si svolgeranno molti rapporti contrattuali. Si pensi alla musica in rete. Dopo il caso Napster, definitivamente vietata la condivisione tra end users (consumatori appunto) di materiale protetto dalle major discografiche, si è sviluppato un importante mercato di contenuto digitale audio e video.
Un CD rom costa all’origine una frazione di centesimo, il suo prezzo al pubblico e di circa 20 € e contiene (semplifico) 20 canzoni. In internet non si vende più il CD ma si premette il download (per esempio utilizzando carte prepagate) di ogni singola canzone o brano a 1 € ciascuna. Il totale non cambia, ma il consumatore, beninteso allo stesso prezzo, amplia di 20 volte la sua capacità di libera scelta.

E non si dica che tutto si copia tanto facilmente, tali e tanti sono i programmi, i formati, i blocchi e vincoli che sperimentiamo ogni giorno, e che si frappongono praticamente e tecnicamente alla libera diffusione tra persone diverse. Le compilation sono infatti sempre connesse individualmente ad un singolo utente, ad un unico sistema o apparecchio. Il caso iPod lo insegna con chiarezza: io carico la “tua” musica, ma perdo la “mia”. I file si sostituiscono tra di loro, non si appaiano. Il tutto è aggirabile, ma non dall’utente medio, e non senza un certo saper fare o “smanettare”.
Ma questo “saper fare” o saper mettere mano ai sistemi di distribuzione e duplicazione di informazioni, non deve fare dimenticare che consultando pagine internet noi ne facciamo sempre una copia, anche se si tratta di copia temporanea, pertanto il diritto di trarre copie di un’opera per fruirne non può assolutamente implicare che siano concesse facoltà specifiche spettanti all’autore, quali quella di riperodurre “con ogni mezzo” l’opera (altrui). Il solo fatto che è più facile appropriarsene digitalmente, non significa che appropriarsene sia lecito. Come nel diritto fonsiario, un alto recinto attorno ad un’abitazione deve far presumere la volontà del proprietario di non subire alcuna intrusione, se un campo non è recintato, questo non deve far presumere che sia lecito a chiunque recarvisi per mieterne il raccolto.