impossible site a dakar

Sono lontana da casa; ultimamente viaggio molto.
Frequento spesso vernissage ed eleganti conferenze, mi annoio ascoltando panegirici da artisti, subisco il mondo glamour dell’arte contemporanea. Sempre più spesso, sempre più spesso dico, mi trovo a riflettere su quanto sincera debba essere l’Arte Pubblica per risultare vera, su quanta fatica si debba compiere affinché non diventi oggetto da museo, fatua concettualizzazione.
Strenuamente, difendo la sua valenza sociale, stringo la mano a coloro che, utilizzandola come strumento, agiscono dal basso (citando il «Cities from Below» di Marco Scotini), tra la gente, per tentare nuove strade e nuove letture.
Qui, oggi, nella perfetta cornice di una Pozzuoli soleggiata ma ventosa, lontana da fogne a cielo aperto e malaria, ripenso a quanto interrogativo e pieno di pretese sia il mondo senegalese, quanto poco intransigenti i nostri interlocutori, laggiù.
Agire in un Luogo che impedisce ai bugiardi poco dotati di mentire, agli artisti poco convincenti di operare, obbliga a mostrare debolezze e forze delle proprie proposizioni e azioni. Non ammessi: giri di parole, abbellimenti dei contenuti, sfarfallamenti da intellettuali. Ancora adesso mi chiedo quanto del nostro Impossible sites a Dakar sia stato interpretato come intervento d’arte, da quanti esso sia stato letto come opera; credo, lo confesso, che nessuna delle persone incontrate per strada, coinvolta nelle marce o nelle varie azioni in città , abbia sentito di prendere parte ad un gesto artistico. Non so perché, ma questo mi sembra assolutamente magnifico.
Magnifico, perché l’intento del Public Artist credo debba essere quello di entrare a contatto con la realtà in cui si trovi ad agire, fondersi, usare codici che abbiano più della comunicazione tra semplici che della conversazione tra eletti. Per le persone con cui abbiamo lavorato, noi siamo stati coloro che hanno dato voce e visibilità a chi ne aveva bisogno, semplicemente. In certi momenti, il nostro progetto è stato addirittura usato come scudo, da coloro che, con handicap invalidanti, sentivano il bisogno di rivendicare maggiore attenzione, più cura e che, in solitudine, avevano tremato all’idea di esporsi.
Abbiamo assistito al ribaltamento di alcuni programmi, quando altri artisti (musicisti e pittori) hanno iniziato a rendere anche proprio il nostro intento; abbiamo ballato, su musiche tradizionali e dipinto, seguendo un ordine temporale improvvisato, distante dalla scaletta europea costruita in occidente.
Le contaminazioni ci sono state: tra persone. Gli incontri sono avvenuti tra uomini, non tra professionalità o conoscenze. I gesti artistici, i pennelli, le danze, la ritualità della tradizione africana si sono fusi, spontaneamente e non per merito nostro, in un mondo in cui la dimensione del collettivo, della comunità e della collaboratività resta un valore, una strada da percorrere con naturalezza.