Una rivoluzione copernicana che ha spodestato tendenze consolidate, stili di vita e abitudini di viaggio. Il fenomeno low cost, importato dagli States in Europa nella seconda metà  degli anni Novanta ed esploso definitivamente all’inizio del decennio, aiutato dalla diffusa capillarità  di Internet, si pone come una caso economico e sociale tra i più rilevanti d’inizio millennio.
Soprattutto perché investe con il suo mastodontico ma al tempo stesso elastico apparato (di cui le compagnie aeree no frills di ultima generazione sono solo la punta dell’iceberg) il bisogno del consumo, ovvero la ragione d’esistenza delle società  occidentali moderne a capitalismo avanzato.
Qual è, dunque, la natura del low cost? Essenzialmente una: porre (quasi) tutta la scelta nelle mani del consumatore.
Prendiamo il trend più clamoroso – e, per certi versi, banale – di low cost: il turismo. Non è più importante la meta, o il viaggio, ma il viaggiatore, che in questo caso non è più corretto definire turista, ma vero cittadino itinerante del mondo. Cambiano i presupposti e le modalità  della cosiddetta vacanza: dalla filosofia del “tutto compreso” si passa al “tutto è comprensibile”.
Alzi la mano chi prima del 1997 non abbia sognato una settimana alle Maldive o a Parigi, piuttosto che un week-end a Riga o a Cracovia: sembra che le compagnie aeree no frills abbiano il potere di rendere desiderabili mete che prima non erano nemmeno lontanamente contemplate, grazie alla liberalizzazione dei cieli e degli aeroporti avvenuta in Europa nella seconda metà  degli anni ’90, la crisi post-11 settembre del settore e la presa di coscienza del nuovo consumatore.
Bratislava come Firenze? Beh, perché no? Certo, l’attrazione di un viaggio aereo a 40 euro grazie alla rinuncia dello spuntino volante e la condivisione della stessa carlinga tra studenti e business men, persino star della politica (fu la Ryanair a riportare a casa Tony Blair nell’estate del 2005 dalle vacanze in Italia) porterebbe alla facile equazione low cost = più voli per tutti.
D’altronde, è vero anche che sono state proprio i vettori low cost a battezzare al volo migliaia di nuovi passeggeri che forse prima non avevano mai neanche sognato di volare. Un po’ come accadde in Italia negli anni ’60, con il boom della motorizzazione di massa. E d’altronde anche il successo di soggiorni alternativi, come ostelli, campeggi, o pratiche inusuali, come lo scambio di casa, e l’ampliamento dei servizi offerti dalle compagnie aeree, come il noleggio di un’automobile via Internet associato alla destinazione, non fanno altro che rafforzare l’ipotesi che il fenomeno trovi il suo perché in un mero fattore economico.
Ma c’è un ma. Il consumo negli ultimi dieci anni è molto cambiato, e sono mutate soprattutto le pratiche che portano al consumo: essenzialmente queste si basano sulla conoscenza e la successiva condivisione delle informazioni, dove i media della comunicazione di massa hanno avuto un impatto decisivo in tutto il Novecento. Ora, con la codificazione di uno schema orizzontale di condivisione delle informazioni (la rete), si è passati ad una condivisione estrema delle pratiche che portano al consumo, e in alcuni casi alla condivisione dei beni di consumo stessi. Per esempio, il peer-to-peer, cioè la condivisione di files audio/video ha permesso uno scambio di beni di consumo.
E cos’altro non è lo scambio di casa se non l’applicazione di una pratica moderna (il peer-to-peer) a un bene tradizionale in un contesto leisure? Ma non c’è solo in turismo e Internet.
Potenti multinazionali, come Ikea, Wal-Mart e McDonald’s hanno fatto del low cost la loro bandiera, rispondendo al bisogno crescente di una massa di reddito medio-basso, impoverita dalla decennale contrazione dell’economia occidentale, che non voleva rinunciare ad alcuni beni di consumo tradizionali, ma anzi voleva (e doveva, altrimenti la crisi sarebbe diventata irreversibile) appropriarsene di nuovi, seppure low cost o addirittura illegali: si pensi alla pratica della pirateria, anche questa cresciuta in modo esponenziale a causa del web.