Intervista a Mario Rizzi

Come ha strutturato il workshop di Prato?
Condurre un gruppo di artisti, nell’arco di soli tre giorni, alla realizzazione di un progetto di arte contemporanea non è cosa semplice e prevede una buona pianificazione di base. Dato un tema iniziale, in questo caso le varie identità della città di Prato, come prima cosa sono stati formati dei gruppi di lavoro che si sono concentrati nell’osservazione delle più grandi comunità straniere della città come la cinese e la musulmana. Quando si intraprende un percorso di questo tipo è importante riuscire a produrre un lavoro che non solo abbia una sua validità teorica ma che serva anche ai ragazzi come patrimonio culturale al quale attingere nella loro futura professione di artisti.

E’ riuscito a farsi un’idea precisa delle caratteristiche di questa città ?
Non conoscevo Prato prima di questa esperienza. Le uniche informazioni che avevo mi erano state fornite da Giacomo Bazzani che come Renshi.org ha fatto in passato un grande lavoro sulla comunità cinese. E’ stata quindi una scoperta continua capire i loro ritmi e meccanismi interni, poterli osservare da vicino e soprattutto vedere qual è il tipo di relazione che i ragazzi pratesi hanno instaurato con essi.

Ci può dare qualche anticipazione sui suoi prossimi impegni e sui nuovi lavori?
Ad ottobre sarò in Olanda per preparare un progetto curato da Chrale Esche che sarà presentato ad aprile 2008. Nel mese prossimo invece sono stato invitato a Parigi insieme ad altri artisti per i 30 anni del Centre Pompidou. Il 10 dicembre presenterò al MoMa di New York un film che ho girato a Istanbul, e subito dopo a New Orleans con una mostra che inaugurerà a gennaio 2008, curata da Dan Cameron.

C’è un progetto realizzato in passato al quale è particolarmente affezionato e nel quale si riconosce in maniera particolare?
Considero importanti tutti i miei lavori. Forse quello più complesso e che, una volta realizzato, mi ha dato maggiore soddisfazione è stato far sposare all’interno di un museo di Berlino due cittadini curdi rifugiati in Germania che non potevano essere rimpatriati per la guerra in Iraq. Ho impiegato 9 mesi per ottenere tutti i permessi affinché questo evento potesse realizzarsi. Un altro progetto particolarmente difficile da realizzare è stato Neightbours, un film che racconta i conflitti fra israeliani e palestinesi. Non volevo esaltare l’odio tra le due popolazioni ma cercare di rappresentare i rapporti interpersonali fra questi due popoli.

Fare arte attraverso questo tipo di progetti di interscambio culturale può essere però interpretato come un modo alternativo di fare politica”?
Rifiuto a priori questo aggettivo. Mi posso definire politico solo in riferimento alla definizione greca del termine polis, ovvero del modo di vivere all’interno della società . In questo caso mi sento tale perché vivo nella realtà che mi circonda. Invece la definizione di politico intesa come l’assunzione di una posizione ben precisa è qualcosa che rifiuto perché un progetto artistico, per essere universale, non può essere strumentalizzato da una parte o dall’altra.

I suoi lavori raccontano e analizzano spesso realtà tra loro in conflitto. Questo suo personale modo di fare arte può migliorare i rapporti fra le persone?
Bisogna essere molto ottimisti per pensare che l’arte possa cambiare qualcosa su un piano sociale. Purtroppo l’arte non riesce a influire più di tanto sulla politica e sul modo di pensare della gente. Questo però non mi impedisce di sperare che, passo dopo passo, i progetti artistici possono contribuire a creare una presa di coscienza che aiuti a fare riflettere.