“Il concerto pubblico come lo conosciamo noi oggi tra cento anni non esisterà più ”“ recitava Glenn Gould nel 1966 ”“ la sua funzione sarà completamente sostituita dal mezzo elettronico”. Glenn Gould si sbagliava, ma aveva anche ragione. Nel 1948 nasce ufficialmente con i lavori di Pierre Schaeffer a Radio France la musique concrète, la musica per altoparlanti. Nel 1947 l’italiano Antonio Castelli brevetta il magnetofono a filo d’acciaio, che divenne poi a nastro magnetico e da quel momento il cambiamento fu inarrestabile.
Oggi, alla vigilia dell’anno 2008, i concerti live godono di ottima salute, ma la storia del suono non è più stata la stessa, e alle nostre incredule orecchie si è spalancato un mondo acustico nuovo: l’arte dei suoni fissati.
Andiamo con ordine. L’invenzione del fonografo è del 1877 e per uno di quei casi non rari nella scienza, venne sviluppata contemporaneamente da due ricercatori che non si conoscevano: Thomas Edison e, sull’altra sponda dell’oceano, Emile Berliner. Durante i suoi primi settant’anni però, il fonografo svolse il ruolo di “memorizzatore di suoni“. Era utilizzato cioè fondamentalmente per registrare, conservare e riprodurre esecuzioni dal vivo affinché queste potessero essere riascoltate. Era l’antidoto alla volatilità dell’esibizione musicale, all’unicità del concerto, all’irripetibilità dell’interpretazione, e soprattutto dell’improvvisazione. Già , perché a beneficiare della registrazione fu in primo luogo la nascente industria del jazz negli Stati Uniti. Ed è grazie a questo che possiamo ancora deliziarci del rag time di Jerry Roll Morton (rigorosamente passato in digitale, portandosi dietro il rumore di fondo e tutto il resto), dei soli del primo Satchmo, della voce indimenticabile della grande Billie Holiday agli esordi. La musica classica resistette finché poté alla fine del mito del concerto, ed ecco spiegata la frase profetica (sessant’anni dopo!) di Glenn Gould.
Ma si tratta davvero solo di questo? Cos’è cambiato nel nostro universo sonoro, qual è il punto di non ritorno per cui un ascoltatore del XIX secolo mal riconoscerebbe il nostro panorama acustico? C’è stata una rivoluzione, paradossalmente, silenziosa, resa possibile dal fonografo e dal magnetofono ma non solo passivamente legata alla tecnologia. Un cambiamento meno appariscente della società dell’immagine, ma più profondo e irreversibile.

Prendete una qualunque serata davanti alla televisione. Cosa ne pensano le nostre orecchie, e quella zona della corteccia cerebrale che riconosce e decodifica in informazione linguistica il suono, del logo sonoro della pubblicità di una nota automobile? Sentiamo, pure vagamente, che ricorda un suono metallico (la carrozzeria?), che ha una gestualità netta (lo scatto in avanti della preziosa automobile?) e nello stesso tempo morbida, con il senso dello spazio dato dal riverbero e dal passaggio canale destro/canale sinistro. Ci siamo abituati, il pubblico non ci fa caso, se non fosse per qualche manipolo di addetti ai lavori che “sentono” – rispondendo ad un automatismo ”“ l’origine dei suoni anche se non vogliono. Ma cosa ne avrebbero pensato gli spettatori di Carosello, nemmeno molto tempo fa? In parte sono gli spettatori di oggi. Una rivoluzione silenziosa, per l’appunto. Il nostro panorama sonoro è cambiato radicalmente e per sempre, e noi non ce ne siamo nemmeno accorti. Dell’immagine si fa un gran discutere. I nuovi suoni sono già tra noi, senza fare rumore.
Torniamo a Pierre Schaeffer, e alle sue ricerche portate avanti con il fonografo a disco morbido. Uomo di radio, l’ingegner Schaeffer aveva cominciato a sperimentare registrando suoni del panorama acustico quotidiano (pentole, voci, ambienti esterni) e del mondo musicale. Increduli audiospettatori ascoltarono alla radio il 12 ottobre 1948 il Concert des Bruits, il Concerto dei Rumori, il risultato dei suoi primi esperimenti: rumori di pentole sbattute e di treni sferraglianti associati a suoni di pianoforte. Una voce ripetuta fino all’ossessione (oggi diremo in loop). E poi rumori indefiniti di un pomeriggio all’aperto: voci di bambini, vento, uccellini…un paesaggio sonoro, diremmo subito noi. Per i parigini di sessant’anni fa, un vero salto nel buio, difficile da considerare “arte”. Rumore, piuttosto.
Ci siamo stupiti noi quando i Pink Floyd di Atom Heart Mother inserirono il paesaggio sonoro di una prima colazione – rigorosamente creato in studio, con tanto di uova che si rompono e bacon che frigge – nel brano Alan’s Psychedelic Breakfast? Forse sì, ma non più che per i folli esperimenti di Frank Zappa in album come Lumpy Gravy: totalmente creato in studio attraverso il montaggio di frammenti strumentali, conversazioni, rumore, irriproducibile sul palcoscenico con strumenti tradizionali. Il passaggio era già compiuto. I pionieri avevano già rotto il muro del suono inteso esclusivamente come suono intonato, come “nota”.
Rumori, voci, parole, tutto ciò che è suono e vibrazione erano già entrati a pieno titolo nel mondo musicale. Rotto il tabù della musica come arte trascendentale, che deve passare attraverso la scrittura musicale per essere suonata, si è incominciato a lavorare concretamente sul suono nelle sue componenti fisiche. La riproducibilità consentita dalla registrazione ha fatto il resto e il suono, fenomeno vibratorio invadente per sua stessa natura, è esploso nella nostra vita.
La riflessione sul cambiamento sonoro nell’arte, oltre che nel quotidiano, ha segnato il passo. Le nostre orecchie, senza troppe proteste, hanno accettato il cambiamento. Fu un’onda lunga, che ritroviamo oggi nelle installazioni sonore di Leafcutter John, nelle suonerie del cellulare di Brian Eno, nelle musiche per videogiochi di Amon Tobin e nelle pubblicità più raffinate. E ci sembra perfettamente, acusticamente, coerente che il duo californiano Matmos regga un intero album (parlo di A chance to cut is a chance to cure) su suoni registrati nella sala operatoria di un chirurgo estetico, o che Bjork in Vespertine, sempre con l’ausilio di Drew Daniel e Martin C. Schmit, unisca la voce ai suoni di oggetti e agli strumenti tradizionali, in una perfetta simbiosi acustica che rende fluido e “naturale” il passaggio tra un mondo sonoro riconoscibile e uno nuovo, indefinito e indefinibile. Il tutto reso possibile dallo studio di registrazione, e dalle tecniche del montaggio.
Il dub, l’hip hop ma anche la techno e la house sono ancora più debitori alla tradizione strumentale e hanno fatto dello studio di registrazione un loro potenziamento, alla ricerca di nuovi strumenti e di nuovi mezzi espressivi musicali come fattori aggiuntivi. La musica sperimentale o meglio elettroacustica, resa possibile dalla registrazione, è invece per il mondo musicale quello che il cinema è stato per il teatro. Come il microscopio per la biologia, il suono fissato sul supporto si è sottratto al tempo e allo spazio e si è concesso, materia viva, alla nostra osservazione e alle nostre manipolazioni, per diventare una fetta di tempo di chi ascolta e un prelievo nel messaggio di chi si esprime (Schaeffer, Traité des Objects Musicaux). Ovvero non meccanismo ma musica, da ascoltare.