Gli ultimi anni sono testimoni di un interesse crescente per il green marketing (Hartmann et al., 2007) e, più in generale, verso il complesso di attività dell’impresa volte a creare una propria immagine positivamente correlata ad un impegno umanitario, sociale o ambientale. Quando i consumatori raggiungono una congrua soddisfazione dei bisogni gerarchicamente inferiori è verosimile che essi si interroghino sul ruolo che la prosperità economica riveste nel processo di sviluppo sociale, più ampiamente considerato (Maslow, 1943; Gutman, 1982). Non è tuttavia ancora chiaro se il green marketing possa sollevare questioni etiche. Questo aspetto è rilevante non solo sul piano propriamente etico ma anche sostanziale: l’impresa che mente ai consumatori su questioni ambientali, sociali o umanitarie può pregiudicare i propri investimenti di branding con esiti decisamente negativi. Le promesse di impegno non sono sufficienti, l’impresa deve dimostrare con i fatti la propria assunzione di responsabilità. Solo in questo modo può raccogliere i frutti dell’immagine “migliore” che vuole costruirsi tramite queste campagne benefiche. In che modo le imprese possono usare lo strumento del marketing per coniugare comportamento etico e profittabilità?
I dati di un recente studio dell’Ipsos condotto sul mercato americano -dove il green-business è una realtà affermata da anni- mostrano come 7 americani su 10 non credano alla promessa eco-sostenibile delle imprese: essi dichiarano che le imprese impegnate in questo campo in realtà mettano in pratica una semplice “tattica di marketing” e non una reale attività a favore dell’ambiente (Grandi, 2007). Dunque il consumatore conosce ed è consapevole del potenziale trucco, ma tende a ricascarci.
Per analizzare maggiormente in dettaglio questo tema, mostreremo i risultati di una ricerca condotta recentemente sui clienti di una delle maggiori insegne italiane della grande distribuzione organizzata (GDO) impegnata da tempo a favore di campagne ambientali e benefiche di diverso genere. Questo consente di valutare l’impatto di tale attività sul comportamento di acquisto del consumatore. Le caratteristiche del distributore considerato e la natura del legame con i soci-consumatori consentono di assumere la possibilità di verifica, da parte dei clienti, dei comportamenti etici dichiarati nel tempo dall’insegna. Per questo motivo il lavoro si concentra sul cliente “fedele” che si presuppone sia maggiormente esposto a questa forma di comunicazione e maggiormente in grado di svelarne gli effetti nel lungo periodo. Si è deciso di stimare il grado di identificazione del consumatore con i valori trasmessi dalle campagne istituzionali del retailer tramite la dimensione brand identification (Bagozzi e Dholakia, 2006) e, al contempo, di valutarne l’impatto sul comportamento del consumatore applicando la Teoria dell’Azione Ragionata (Ajzen, 1991). Si è inoltre rilevato il comportamento reale di acquisto -brand related behaviour- (Bagozzi e Dholakia, 2006), con lo scopo di valutare i reali effetti che l’identificazione con il sistema di valori comunicato dall’insegna esercita sugli acquisti dei prodotti a marchio del distributore, sulla frequenza di utilizzo del distributore – sia assoluta sia paragonata ai concorrenti – e sulla quota di spesa riservata ai punti vendita del distributore. Lo studio è stato condotto nel periodo in cui l’insegna è stata impegnata in una campagna istituzionale incentrata sulla comunicazione del proprio sistema di valori ed in particolare sull’attenzione che l’impresa garantiva in ogni fase del proprio business a favore dell’ambiente, dei lavoratori e, in generale dei consumatori. Dai risultati è emerso con forza come la dimensione brand identification sia effettivamente in grado di guidare le scelte e i comportamenti del consumatore, che tende a premiare l’insegna nella quale si riconosce. Dai risultati emerge come il grado di identificazione del consumatore con il brand, in questo caso con l’insegna distributiva, sia effettivamente in grado di agire positivamente sulle scelte di acquisto del consumatore. Nel nostro lavoro la misura di tale identificazione è stata affidata al costrutto di brand identification. In altre parole, se l’individuo si rispecchia nell’immagine che l’impresa trasmette, risulta più propenso ad adottare comportamenti di acquisto virtuosi: più l’identità del consumatore si sovrappone all’immagine dell’impresa, più sarà verosimile che il rapporto fra l’impresa ed il consumatore, mediato dalla marca, si saldi nel tempo fino allo stadio definito di fedeltà.
Dalle nostre analisi risulta che questa identificazione è certamente favorita dalla scelta dell’impresa di aderire a campagne ambientali/sociali e trasmettere tale impegno al consumatore attraverso un’adeguata strategia di comunicazione. Quindi, la decisione di seguire il trend dettato dalla maggior attenzione a tematiche sociali e ambientali è certamente premiante se riesce a convincere il consumatore. Emerge la centralità del ruolo giocato dalla marca e dal portato di valori ad essa connessi. Infatti, la vicinanza del brand all’identità del soggetto è in grado di agire positivamente sul comportamento d’acquisto, anche in un contesto a basso coinvolgimento e tradizionalmente considerato a prevalenza di comportamenti opportunistici verso il retailer (Uncles et al., 2003; Castaldo e Mauri, 2002; Costabile, 2001). La stessa analisi, condotta ad un anno di distanza dalla chiusura della campagna comunicativa ha mostrato un deciso indebolimento di questo effetto, coerentemente a quanto sostenuto dalla letteratura sul green marketing (Hartmann et al. 2007).
Possiamo quindi tentare una prima risposta alle domande che hanno aperto questo articolo. Appoggiare campagne benefiche può certamente rivelarsi una strategia di successo per l’impresa, a patto che riesca a trasmettere adeguatamente i propri sforzi ai consumatori-target e, al contempo, renda evidente l’impegno reale. L’impatto positivo che tale strategia riesce ad avere sulle decisioni del consumatore è stato messo chiaramente in evidenza in questo articolo. L’intensità della relazione può rappresentare una leva strategica di marketing, anche in contesti, come quello della GDO, che tradizionalmente faticano a definire un posizionamento chiaro e favorevole della marca. È ovvio che il presupposto fondamentale su cui si basa il successo di tale strategia risiede nella credibilità delle promesse dell’impresa: la sanzione che il consumatore può imporre all’impresa che non mantiene le promesse è ovviamente legata alla diminuzione del livello di fiducia accordato e, quindi, alla perdita di credibilità dell’impresa. Tale minor credibilità si rispecchierà non solo nelle valutazioni del consumatore relative alle campagne non-profit che l’impresa dichiara di sostenere, ma anche nelle valutazioni delle stesse offerte commerciali dell’impressa, con un probabile danno economico conseguente. Inoltre l’impresa deve mantenere alta l’attenzione del consumatore sui temi etici con investimenti comunicativi che si devono ripetere nel tempo, pena la scomparsa degli effetti positivi guadagnati con campagne precedenti. In sintesi, l’impresa ha la possibilità ed anche la convenienza ad impegnarsi in azioni di green marketing. Questa scelta strategica può effettivamente sostenere la fedeltà del cliente, ma proprio per la natura di scambio sociale e fiduciario insito nella relazione fra cliente ed impresa, quest’ultima deve riflettere profondamente sulla propria storia e sull’effettiva capacità di realizzare nel suo business ciò che diffonde sui mezzi di comunicazione. Solo se l’impresa risulta credibile, offre garanzie delle scelte etiche dichiarate e sostiene i risultati con adeguate campagne comunicazionali, riuscirà a cogliere le opportunità offerte dal green marketing.

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Nota: La versione integrale di questo articolo è pubblicata in www.ticonzero.info