product-placementI contesti di mercato odierni vedono sempre più consumatori critici se non addirittura refrattari nei confronti della comunicazione commerciale tradizionale. Oggi, la gran parte del pubblico è ben cosciente delle tattiche di marketing utilizzate dalle aziende per comunicare e ciò annoia ed infastidisce soprattutto alla luce della consapevolezza di svolgere il ruolo del ricevente passivo. Numerosi esempi balzati alla cronaca recente (ad esempio il successo di MySpace o di YouTube(1)) testimoniano la voglia di protagonismo del consumatore moderno, tanto che le imprese cercano di coinvolgerlo il più possibile nel processo di comunicazione fino addirittura alla creazione di veri e propri spot pubblicitari “self made” (“Italia Uno!” tanto per fare un esempio).
Le aziende, quindi, consce degli scenari in cui si trovano ad operare, sono alla continua ricerca di nuovi strumenti, giudicati non convenzionali, per comunicare col proprio target di riferimento. Ottimi esempi da questo punto di vista, sono rappresentati dal guerriglia marketing, dal marketing virale ed infine dal product placement, strumento che è diventato una fonte vitale di finanziamento e sussistenza del cinema italiano, fino a pochi anni fa basato quasi interamente sul finanziamento pubblico.
Il product placement è una tecnica di comunicazione aziendale mediante la quale si progetta e si realizza, a fronte di specifici costi e nel rispetto di definiti contratti, il collocamento di un prodotto o di una marca all’interno di un contesto narrativo precostituito sia questo una pellicola cinematografica, un programma televisivo, un romanzo, un video musicale o un videogioco. Essendo il messaggio commerciale non intrusivo e di natura nascosta, il product placement sembra non attivare nel consumatore l’identificazione dell’intento di marketing, riuscendo meglio nell’obiettivo persuasorio.
Allo scopo di migliorare l’assetto finanziario del settore cinematografico, il decreto legislativo n° 28 del 22 gennaio 2004 noto come “legge Urbani” si è proposto di riformare la disciplina in materia di attività cinematografiche determinando degli interventi finanziari straordinari a favore della produzione cinematografica.
L’obiettivo è quello di ridurre gli sprechi di risorse pubbliche garantendo più solidità strutturale per il cinema italiano. In tale ottica si prevede la possibilità di utilizzare marchi commerciali all’interno dei film, ottenendo in cambio introiti di tipo pubblicitario. Tale apertura non solo introduce una nuova e importante fonte di finanziamento per il cinema italiano ma soprattutto sana la lacuna creata dal precedente divieto derivante dall’applicazione estensiva della normativa sulla pubblicità ingannevole.
Tale divieto, infatti, non vigeva nei principali paesi esportatori di cinema (es. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) il che conduceva al paradosso per cui l’80% dei film visionati dagli spettatori italiani conteneva product placement nonostante fosse proibito per le produzioni nazionali. Da qui il molteplice danno per il consumatore, per l’industria privata e per la produzione cinematografica italiana.
Già da diversi anni importanti brand italiani come Ferrari, Tod’s, Armani, San Pellegrino, solo per citarne alcuni, vengono inseriti regolarmente all’interno di pellicole Hollywoodiane di grande successo. Secondo uno studio effettuato da Eta Meta Research, addirittura sette film su dieci a Hollywood farebbero uso di marchi italiani(2). Anche il mercato interno italiano, sebbene ancora in formazione, presenta delle ottime stime di crescita: il valore complessivo dei placement cinematografici pagati nel 2005 ha raggiunto la cifra di 36 milioni di $ classificando il nostro mercato al terzo posto nel ranking mondiale subito dopo Stati Uniti e Francia.
Dopo la liberalizzazione normativa del 2004, l’industria del product placement italiano sembra essere decollata, almeno per quanto riguarda il settore cinematografico; in un solo anno infatti, si è registrata una crescita degli investimenti del 28% superiore a quella relativa al mercato statunitense (21,3%) e seconda, in termini percentuali, solo alla Cina (31,3%). Tali risorse aggiuntive nel settore cinematografico, dovrebbero andare a sostituire progressivamente i finanziamenti statali sempre più modesti.
Il product placement, però, essendo una strategia complessa e considerando al suo interno diversi criteri e diverse variabili, deve cercare di inserire il prodotto di marca senza distogliere dallo scopo primario del film che non è quello di vendere i prodotti ma di intrattenere lo spettatore.
Il film non può trasformarsi in una vetrina da riempire con più articoli possibile perché ciò infastidirebbe lo spettatore facendo perdere i tipici benefici dei messaggi ibridi. A tale scopo è necessaria una stretta collaborazione tra il management delle imprese inserzioniste e la parte creativa (ossia autori, registi e sceneggiatori) designata dal produttore, in modo da progettare al meglio l’inserimento/integrazione dei prodotti di marca nella storia.
Per migliorare l’immagine di marca si può investire nell’arricchimento dei significati che la marca evoca, quindi il legare il brand ad un particolare personaggio (attore) e/o integrarlo nella trama di un film può essere molto proficuo da questo punto di vista. E’ opportuno dunque che autori e registi individuino, all’interno della sceneggiatura in costruzione, un ruolo o una modalità di inserimento particolari in modo da rendere l’inserimento del brand più “creativo” che “commerciale”.
Negli ultimi tempi la pratica del product placement è diventata sempre più comune e la competizione sviluppatasi tra le aziende per accaparrarsi spazi non convenzionali per comunicare con il mercato ha innalzato l’interesse per la ricerca in questo campo. Per questo motivo la tematica valutazione dell’efficacia del product placement(3), da parte delle aziende inserzioniste, è divenuta negli ultimi anni sempre più importante e dibattuta in quanto se da un lato l’utilizzo di prodotti di marca nei film è iniziato da subito con la nascita del cinema stesso, dall’altro, ciò che sicuramente è mutato nel corso del tempo è la sua considerazione in termini commerciali. Tanto è vero che un’importante società di ricerche di mercato come la Nielsen già dal 2003 ha iniziato con un’attività di monitoraggio e valutazione del product placement televisivo sul mercato americano tenendo in considerazione la durata e la modalità di esposizione dei vari brand. In sostanza, il mondo professionale, basando comunemente le proprie valutazioni inerenti l’efficacia dello strumento sulle risposte cognitive, quali il ricordo o il riconoscimento della marca inserita, ha consolidato l’applicazione di un tariffario che chiaramente riflette solo un lato della medaglia e non rispecchia la reale efficacia delle varie tipologie di placement.
In termini puramente manageriali, le aziende che intendono investire in questo ambito, debbono valutare gli effetti che le varie politiche di placement provocano nell’audience target prendendo in considerazione non solo le risposte cognitive ma anche quelle affettive e comportamentali in quanto, investendo troppo sulle variabili legate ad incrementare la prominenza dello stimolo, si possono indurre dei pericolosi effetti negativi sull’atteggiamento nei confronti della marca o sull’intenzione d’acquisto non rilevabili con la mera analisi del ricordo. Non necessariamente l’inserimento più ricordato in un film è il migliore, sebbene probabilmente ad oggi, seguendo la prassi di mercato, sia il più costoso.

Nota: La versione integrale di questo articolo è pubblicata in www.ticonzero.info

Note:
1 MySpace – acquistato dal gigante dei media News Corp. l’anno scorso per 580 milioni di dollari – conta oltre 130 milioni di utenti nel mondo e registra circa 300.000 nuovi membri al giorno, mentre YouTube – comprato da Google nel novembre 2006 per 1,65 miliardi di dollari – conta circa 100 milioni di pagine viste al giorno (Il Corriere della Sera, 17 dicembre 2006).
2 Fonte “Il Messaggero” 2005.
3 Per una trattazione più esaustiva della tematica si vedano Gistri (2006) e Gistri (2007).

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