il_milione_okIntervista con Alessandro Agostinelli – ideatore del festival Il Milione e presidente dell’associazione Alleo

Negli ultimi dieci – quindici anni la formula festivaliera ha avuto in Italia un successo tanto ampio  da diventare un fenomeno degno di attenzione, un argomento di riflessione per gli studiosi e un tema di discussione anche fra gli addetti ai lavori.
Se si confrontano le diverse realtà locali protagoniste di questo fenomeno, si può osservare una gamma molto vasta di risultati differenti. Alcuni di questi microcosmi hanno intrapreso un cammino di rigenerazione urbana indotta dal processo di costruzione del festival. In altri casi, l’entusiasmo per il contenitore-festival ha prodotto, al contrario, esiti poco o per nulla soddisfacenti dal punto di vista del rapporto fra le risorse impiegate e la capacità di incubazione della conoscenza e delle competenze endogene.
Per tali ragioni, oggi gli organizzatori più accorti pongono attenzione a questi aspetti e ne hanno consapevolezza.
Il Festival del Viaggio di Pisa “il milione”, giunto alla sua terza edizione, si è appena concluso.
Alessandro Agostinelli, ideatore del festival e presidente dell’associazione Alleo che lo organizza, racconta a Tafter il cammino percorso dal festival del viaggio, i tratti che lo contraddistinguono rispetto ad altri eventi festivalieri e le prospettive aperte per il futuro dell’iniziativa.

 

sandro-petri_il-milioneInnanzitutto, cosa caratterizza “il milione”?
L’individuazione di un tema specifico come quello del viaggio, tema che apre diverse dimensioni narrative che abbiamo voluto attraversare in maniera multi-disciplinare. Il panorama italiano, specie in Toscana, Emilia Romagna e Veneto, comprende una quantità spropositata di festival che molto spesso dovrebbero essere più correttamente definiti rassegne. La nostra proposta consiste invece nell’offerta di uno spaccato che attraversa e combina più discipline, dalle arti visuali al teatro, passando per i documentari e la fotografia, la letteratura e i dibattiti.

Ripercorrendo a ritroso le varie fasi attraversate fin qui, da dove viene questo festival?
Il nostro festival viene dalla necessità di affrontare in modo multidisciplinare il tema del viaggio, che non era affrontato, se non marginalmente, né in Toscana, né in Italia. Di fronte al delirio estivo di occasioni di intrattenimento sui generis, abbiamo voluto inventare un’occasione di apprendimento, un’esperienza di arricchimento personale e collettivo.

Quale è stato il rapporto con la città “ospitante”, Pisa?
Pisa ci è parsa un luogo ideale dove poter radicare “il milione”. A cominciare dal titolo, abbiamo voluto richiamare i fasti dell’antica Repubblica marinara e le cronache del primo giornalista della storia moderna, Rustichello, che scrisse del viaggio incredibile di Marco Polo. Inizialmente siamo stati sostenuti dal precedente sindaco, e abbiamo tentato di dar lustro al premio Rustichello da Pisa, gestito dall’azienda di promozione turistica, poi modificata dalla Regione. Purtroppo, nonostante le buone intenzioni di tutti, abbiamo constatato l’impossibilità di condividere un modus operandi che segnasse un cambiamento a nostro avviso necessario rispetto alle rigide abitudini e alle logiche per lo più burocratiche con cui ci siamo trovati a confronto.

Cos’è accaduto quest’anno, e quali saranno gli sviluppi futuri?
Quest’anno abbiamo avuto diverse resistenze, e abbiamo capito che Pisa ha una grossa difficoltà a puntare su cose nuove. Perciò, per quanto ci riguarda, l’anno prossimo Pisa sarà depotenziata. Verrà mantenuto l’appuntamento di dicembre, che resta una costante del festival, ma ci sposteremo anche in altre città. Ad Arezzo e Venezia saranno ospitate, rispettivamente d’estate (all’interno del Play Art Festival) e all’inizio di ottobre, le due tappe principali che affiancheranno l’appuntamento di Pisa. Il cambiamento però non riguarderà soltanto questo aspetto perché la nostra attenzione si sta spostando sempre più verso la possibilità di fare formazione sulle tematiche e i linguaggi del viaggio. Nelle nostre intenzioni, il festival si trasformerà, dunque, in un momento culminante all’interno di un processo di formazione in continua relazione col territorio. Educando al viaggio in modo diffuso e duraturo.

In tempo di crisi, può la cultura essere sviluppo?
Certamente, per esempio ci sono tantissime aziende che potrebbero avere interesse a promuovere e cogestire eventi che non siano un mero assemblaggio sconclusionato di piccoli o grandi nomi. Il problema principale che abbiamo notato in questi anni è legato alla mediazione degli apparati politici, che tendono a gravitare e far gravitare i soldi delle istituzioni e delle fondazioni più su rassegne con nomi famosi che non lasciano niente al territorio, invece che su manifestazioni che dal territorio partono e al territorio ritornano. Noi abbiamo provato inizialmente a radicarci a Pisa, perché pensiamo che un festival non sia una rassegna di cose che vengono da fuori, bensì l’attività dell’associazionismo locale, un processo capace di unire le migliori competenze del territorio.

A proposito di conoscenza, competenze e traduzione in progettualità, se si dovesse riproporre oggi un’assemblea degli stati generali della cultura come quella della Palermo di Leoluca Orlando nella prima metà degli anni novanta, quali sarebbero le tue proposte?
Ce ne sarebbe bisogno, come allora e forse più. Ricordo bene il fermento di quel periodo, ho partecipato personalmente, insieme all’amico Omar Calabrese, e diverse proposte avrebbero potuto imprimere un forte cambiamento e risolvere molti problemi, purtroppo irrisolti. Per esempio a Palermo nel 1994 proposi l’idea di promuovere uno scambio fra studenti universitari provenienti da diverse città italiane in modo realizzare una sorta di Erasmus nazionale per far conoscere la ricchezza del patrimonio culturale italiano. E sempre dalla successiva associazione City Club nacque anche una proposta di legge per l’integrazione dei ministeri del turismo e dei beni e attività culturali, legge che avrebbe avuto conseguenze fondamentali per la valorizzazione culturale e l’investimento nell’industria creativa. Sfortunatamente queste idee, a lungo discusse e perfezionate (da me stesso anche all’interno della commissione cultura nazionale dell’Anci), non sono state poi cristallizzate in norma e, soprattutto, non abbiamo potuto metterne alla prova i principi e valutarne le possibilità. Con le dovute distinzioni, nella fase storica attuale, tre sono le priorità che individuo:
1. che la politica, ridotta ora ad oligarchia dell’appartenenza, torni alla regia dei processi locali per attivare progettualità, smettendo di dedicarsi solo alla spartizione delle risorse locali;
2. la creazione di presidi di partecipazione su temi culturali (degli intrecci di senso), mappando il più possibile il territorio e avendo come riferimento gli studi sul capitale sociale;
3. il coinvolgimento dell’associazionismo, per una creatività non astratta ma fatta di idee, immaginazione e narrazioni condivise.

Con le tue parole sembri disegnare un’unica visione. Se esiste, qual è il suo centro?
In effetti quello che emerge dalla realtà che viviamo è proprio la mancanza di un centro attorno a cui investire, una sorta di punto di accumulazione del capitale umano, sociale e culturale – e per questo rimarcavo l’importanza della formazione. Per pensare e costruire un centro siffatto, occorre lavorare insieme a partire dalle qualità del territorio, con un atteggiamento sinergico totale. Tutti gli attori devono collaborare. Siamo tutti viaggiatori, e perciò portatori di narrazioni possibili. Se impariamo nuovamente a stare insieme e a conversare, possiamo costruire un sistema di valori che sostenga e valorizzi esperienze cariche di senso. In caso contrario si perpetra l’autoreferenzialità, un’ischemia sociale che segna il declino in cui siamo. Il declino si può combattere ma ci vuole l’onestà di riconoscerne l’esistenza, comprenderne le cause e avere il coraggio di agire altrimenti, andare oltre.