Intervista a Renzo Carlucci – direttore della rivista GEOmedia e Professore dell’Università degli Studi di Roma Tre, facoltà di Ingegneria

cartedelrischioIl prof. Fernando Nardi, ricercatore GISTAR dell’Università degli Studi della Tuscia, si è chiesto, in un commento su Tafter, come le normative possano tenere il passo rispetto alle evoluzioni della tecnologia GIS in assenza di adeguate infrastrutture e di opportune normative tecniche. Lei cosa ne pensa?
La questione è stata esaminata più volte dal MiBAC e soprattutto dall’Istituto Centrale per il Restauro, il quale ha cominciato a costruire nel 1992 una banca dati finalizzata alla catalogazione dei monumenti e di siti archeologici italiani tenendo conto delle situazioni di vulnerabilità e memorizzando tutti i dati sui restauri effettuati e sulle tecnologie utilizzate negli specifici casi. Questa banca dati, nata nel 1992, dopo una prima fase di sperimentazione durata fino al 1996, è stata poi ripresa nel 2002 e conclusa definitivamente nel 2006. I risultati di questa lunga compilazione non sono ancora del tutto noti.
Gli investimenti dal punto di vista economico, informatico, strutturale, delle conoscenze, delle interfacce e delle sinergie con altri esponenti internazionali sono stati effettuati, la banca dati esiste ma i risultati, per qualche impedimento amministrativo o burocratico che ignoro, non vengono però divulgati completamente.

Lei si è occupato di diverse tecnologie e applicazioni nel campo del restauro e dei beni culturali. Qual è stato, in questi anni, il progetto che ricorda con più soddisfazione?
Credo sia quello finalizzato alla catalogazione globale dei monumenti del nostro Paese, avviato negli anni ‘90 a seguito della necessità di predisporre di strumenti di conoscenza del patrimonio culturale finalizzati alla difesa di questi ultimi dal rischio sismico. Si è creata a questo proposto la cosiddetta “Carta del Rischio del Patrimonio Culturale”, redatta sulla base di una tecnologia che avrebbe potuto documentare velocemente tutti i monumenti presenti sul territorio. Purtroppo poi, la documentazione ottenuta non è stata mai implementata e mai utilizzata per scopi estensivi.

Esiste la possibilità di adattare a livello internazionale, con la standardizzazione, le Carte del Rischio?
Abbiamo ricevuto moltissime richieste di utilizzo della nostra metodologia  per la Carta del rischio da parte di altri paesi, affinché si potessero replicare le stesse tecniche con degli standard internazionali. È stata concepita una Carta del rischio similare a quella italiana in Spagna, in Grecia, e alcuni esperimenti sono stati avviati in Egitto e uno, a cui ho partecipato direttamente, in Siria. L’auspicio è proprio quello che il nostro modello di Carta diventi una Carta del rischio del patrimonio culturale del mediterraneo.

Quali sono i risultati ottenuti dagli altri Paesi rispetto a questo settore?
La parte relativa alla documentazione del bene è normata a livello europeo e i Paesi che hanno realizzato la carta del rischio hanno adottato il sistema internazionale. Dal punto di vista del restauro e delle tecnologie utilizzate, l’unica proposta è arrivata dall’Italia ed è poi stata applicata in Spagna e Grecia. In Egitto e in Siria la situazione è differente poiché sono gli stessi beni culturali a richiedere standard diversi: in Egitto, ad esempio,  le tombe soffrono di problematiche molto particolari diverse da quelle presenti in Italia.

Sul dibattito che vede contrapporsi conservazione, restauro e valorizzazione, le nuove tecnologie dove trovano maggiore campo d’azione?
Direi su tutti e tre, anche se è il restauro l’investimento del futuro. Per quanto riguarda la valorizzazione parliamo infatti di tecnologie multimediali che si sviluppano quasi da sole. Le tecnologie riguardanti il restauro sono, ad oggi, quelle più importanti in quanto ci assicurano la possibilita’ di poter fruire del nostro patrimonio anche in futuro. Le tecnologie dovrebbero però essere maggiormente finalizzate alla prevenzione piuttosto che agli interventi di restauro. In un futuro utopico si dovrebbe pensare ad eliminare la voce restauro e agire in prevenzione con una accurata ispezione.

Lei ha recentemente partecipato al convegno internazionale  “Culture Business Matching: Along the Silk Road”a Roma. Quali sono state le principali differenze che sono emerse tra le tecnologie applicate in Italia  e quelle applicate in altri Paesi?
L’Italia si è dimostrata essere un punto di riferimento per le tecnologie sul restauro dei beni culturali: la grande innovazione apportata dagli italiani, e che colpisce all’estero, è stata l’unione tra l’umanista e lo scienziato, tra lo storico dell’arte, ad esempio,  e i fisici, chimici, o biologi che potevano mettere a disposizione del bene culturale la loro conoscenza tecnica. Questo è quello su cui dovremmo puntare: la consapevolezza di possedere una esperienza tale delle tecniche classiche e di ultima genereazione  per la protezione del patrimonio culturale che ci contraddistingue nel mondo.

Qual è per lei lo sviluppo da intraprendere nel lungo termine nella ricerca sulle tecnologie applicate ai beni culturali?
Dalla mia esperienza, ho potuto constatare che la nostra più grande necessità è quella di avere un sistema informativo geografico globale al cui interno siano inserite tutte le variabili che possono portare ad una completa conoscenza del bene culturale, informazioni indispensabili per poterne valutare lo stato di vulnerabilità e di conservazione.
Bisognerebbe quindi concludere le campagne iniziate parzialmente da alcune regioni italiane e colmare il gap tra i territori: Piemonte, Sicilia e Calabria, ad esempio, hanno il loro patrimonio tutto catalogato, l’Abruzzo, che ne avrebbe avuto estremamente bisogno, non mi risulta lo abbia. Questa differenza si è verificata a partire dalla differenziazione dei finanziamenti erogati dal Ministero il quale si spera risolva tale disparità  per evitare che un alto numero di beni culturali rimanga al di fuori dei sistemi informativi globali.