Pensare la città – descriverla, disegnarla, studiarla – impegna il tempo e le energie di tante persone, dagli urbanisti ai filosofi, dagli artisti agli amministratori passando per architetti e scrittori, e una cosa è certa: la volontà di rappresentare la città ha preceduto i mezzi per soddisfarla. I dipinti medievali e rinascimentali raffigurano panorami di città inventati o utopici con una prospettiva che l’occhio umano, ai tempi, non era ancora abituato a vedere.
Secoli dopo, il desiderio di rinnovare il conosciuto ha portato alla teorizzazione di pratiche del vedere la città che lasciano spazio all’esperire, al tempo, alla curiosità e alla scoperta. La  flanerie, ossia il passeggiare per le vie della città, introdotta da Charles Baudelaire attorno alla metà dell’ottocento, rappresenta proprio l’idea di un’esplorazione non affrettata e libera da programmi. Verso la metà del novecento, il flaneur è diventato chi pratica la deriva, ossia colui che si aggira per la città, sempre senza meta e orario, basandosi su quello che vede e non su quello che sa. Guy Debord, definendo la deriva, giunge perfino a suggerire un modus operandi: “con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari”.
Il mito della Città e del Flaneur sono tutt’oggi ancora vivi. L’invito è sempre lo stesso, quello di vivere il contesto città non nella sua univocità ma nei suoi frammenti. Ci sono luoghi che forse più di altri si prestano ad essere analizzati secondo queste pratiche, forse proprio perché di letteratura in merito ce ne è già tanta e uno sguardo improbabile può aggiungere qualcosa che non c’era.
E’ accaduto alla città di Berlino, grazie ad un contributo italiano che coniuga linguaggi differenti come la fotografia e l’antropologia, la filosofia e la storia.
Il volume Le città di Berlino, presentato allo Studio d’Arte del Lauro di Milano, il 18 marzo 2010, è un progetto dell’Università di Bologna, pensato da Guido Gambetta in occasione del ventennale della caduta del Muro, e si compone delle fotografie di Salvatore Mirabella e dei testi curati da Gianluca Bocchi e Laura Peters.
Le città di Berlino, non è un errore tipografico, come sottolineano gli autori, ma un modo per ribadire la complessità del concetto di città. Berlino si presta a studi di questo genere perché è “un concentrato di storie universali” – come dice Gianluca Bocchi – che raggiungono il culmine nel novecento ma che prendono avvio ancora nel secolo precedente quando gli storici già individuarono qualcosa di smodato e incontrollabile nella sua trasformazione e crescita. All’inizio dell’ottocento veniva chiamata Atene sulla Sprea, dopo il boom industriale è diventata Chicago sulla Sprea, oggi è Berlino ma la si può indicare veramente solo precisando se si sta parlando di Kreuzberg o di Charlottenburg, di Mitte o di Spandau. La differenza sta nel fatto che la vita urbana lascia affiorare ciò che il progetto urbanistico escludeva: è la città che non si lascia più totalizzare in un concetto ma si presenta come il più smisurato dei testi umani.
Se il protagonista è ancora una volta il passante, questa volta il Wandersmanner agisce nel testo urbano cercando di scriverlo e non più solo osservandolo. La città non è più quindi un concetto astratto in cui passeggiare o da esplorare: è l’atto stesso di camminare a costruire la trama dei luoghi, a dare organizzazione allo spazio. Michel de Certeau, paragona l’atto di camminare con l’atto di parlare; e come l’atto di parlare è proprio dell’essere umano anche la costruzione delle città è unicamente umana. Sono le persone a fare la città e non viceversa.
L’atto di parlare mette in gioco l’appropriazione o riappropriazione della lingua da parte di chi parla; allo stesso modo  gli individui giocano con la città operando al suo interno innumerevoli e infinitesimali trasformazioni in funzione dei loro interessi e delle regole da loro stessi dettate. Queste pratiche sono tutti metodi per riappropriarsi dello spazio organizzato mediante la produzione di fatti di tipo socio-culturale.
La città non è un modello imposto ma si definisce attraverso l’uso da parte degli utenti: la forza delle differenze deriva dai modi di consumo. Pensare la città, pianificarla, ha un solo punto di partenza: come usarla; la città non è un’idea ma è qualcosa che vive pulsa, pensa, si trasforma. L’uso è l’atto che precede la creazione di un’identità ed è una chiarezza di intenzioni che spesso è esclusa dal progetto urbanistico o politico di chi amministra lo spazio pubblico. Il distacco tra i differenti stakeholder ha trasformato la riappropriazione dello spazio pubblico in una vera e propria politicizzazione delle pratiche quotidiane: eventi che si insinuano nel testo chiaro della città pianificata su carta (1) .
In questo contesto, quale ruolo quindi per i flaneur o i Wandersmanner contemporanei? La risposta non c’è, come dice Felix Gonzales Torres: “Io scelgo le posizioni più diverse. Magari mi sveglio il lunedì con un umore un po’ politico e il martedì mi sento un po’ più nostalgico e al mercoledì sono diventato un realista” (2) . L’importante è non lasciarsi attraversare dalla città ma attraversarla per esserne commento sociale. Indipendentemente dal ruolo che si gioca.

Note:
1 . Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro Roma, 2001.
 2 . Da un’intervista di Tim Rollins a Felix Gonzales Torres (artista)

Fotografia di Salvatore Mirabella