Non ci sono più dubbi sull’importanza di un adeguato piano di comunicazione come parte integrante di una strategia vincente, qualunque sia l’obiettivo che si vuole raggiungere: le scelte comunicative, prima ancora che il contenuto o le idee effettivamente esposte, fanno la differenza tra partiti politici vincenti e perdenti; un valido sistema di comunicazione interna è una chiave strategica per il successo di un’azienda; la notorietà di un brand è portata alle stelle da strategiche campagne di comunicazione create ah hoc per fortificare l’immagine aziendale.
Un’efficace comunicazione è il risultato di un monitoraggio costante dei codici di una società e dei suoi mutamenti, dei linguaggi di una generazione, delle abitudini delle persone, delle tecnologie prevalenti e dei media di tendenza. Cos’è tutto ciò se non espressione della cultura di una popolazione?
Dunque la comunicazione è un’indiscutibile leva di vantaggio competitivo per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo e la sua definizione deve passare attraverso un’attenta analisi culturale. Ma se il binomio cultura-comunicazione è così inscindibile, perché pare che la cultura abbia la presunzione di non dover comunicare il proprio valore?
Per eventi artistici, musicali, letterari, teatrali la comunicazione è ancora sinonimo di informazione: si tende a informare sul luogo e sull’orario di apertura di una mostra, sul nome di un’opera portata su un palcoscenico, sul numero di monumenti da visitare in una città. Informazioni. Quindi se si è alla ricerca di un evento specifico probabilmente si troveranno le coordinate necessarie per assistervi, ma certo non sarà la cultura a intercettare e soddisfare un target preciso.
Quand’è che la cultura farà proseliti? La comunicazione di eventi culturali mira a coinvolgere chi vuole essere coinvolto, non si preoccupa di raggiungere chi non ha un manifesto interesse culturale.
La funzione sociale dell’arte, della musica, della letteratura, si limita alla pretesa di prezzi più bassi per i biglietti d’ingresso; non ci si preoccupa di far si che le fasce di popolazione più distanti da un certo tipo di realtà siano incuriositi o attratti da essa.
In un mondo dove la comunicazione punta sempre di più sull’esperienziale e sul livello di coinvolgimento emotivo (fate l’amore con il sapore è uno yogurt, no limits è un orologio, …), la cultura, il contenitore di emozioni e valori per eccellenza pare farne a meno. Perché?
Se prima ci si poteva rifugiare nel discorso delle disponibilità economiche che le aziende e la politica potevano utilizzare per le proprie campagne pubblicitarie, adesso questo discorso non è più sufficiente. Siamo nell’era del web 2.0 e il mondo della comunicazione è stato completamente rivoluzionato dai social network e dalle nuove tecnologie. Le realtà aziendali hanno riconosciuto l’enorme potenziale di questo nuovo mondo, e la comunicazione culturale? Continua ad arrancare, relegando la comunicazione ai volantini da stampare e agli inviti da spedire, trascurando le enormi potenzialità che porta con se l’era del “passaparola virtuale”.
Perché non si riesce a rendere un prodotto culturale tanto seducente quanto uno commerciale?
La cultura e la sua promozione, intesa nelle sue varie accezioni, è sempre più spesso lasciata all’iniziativa di pochi intraprendenti, poco strutturata nella sua offerta, poco integrata nelle sue varie forme, poco curata nei suoi obiettivi. Il registro cambia però quando la cultura, al servizio delle grandi aziende, diventa un elemento riabilitativo di un’immagine logorata da qualche misfatto legale o uno strumento per incrementare la propria “brand awareness”. Molte aziende creano delle fondazioni per promuovere il proprio impegno artistico, sociale, scientifico, a dimostrazione di quanto sia forte il peso riconosciuto dall’immaginario collettivo alle attività cui i cittadini stessi sono i primi a non partecipare.
Quindi la promozione della cultura (non solo arte ma anche ecologia, legalità, volontariato..) trova limiti di comunicazione evidenti (non si riesce a far passare il messaggio che una persona con più cultura che scarpe possa essere felice) salvo divenire il canale privilegiato di chi si appella ad essa per promuovere i propri valori, la propria immagine, e i propri prodotti.
Qualcuno, di fronte a tale panorama, può lasciarsi andare alla retorica di un capitalismo che vede gli interessi privati e commerciali, schiacciare quelli sociali e culturali, ma c’è chi  può invece vedere dei margini interessanti per lo sviluppo di una “cultura della cultura” intendendola come qualcosa che va promosso, presentato, coltivato e non semplicemente pubblicizzato.