In un recente articolo apparso su Tafter, Vincenzo Estremo propone delle considerazioni sul tema del rapporto tra il Festival dell’Arte Contemporanea di Faenza e la città, all’interno del contesto più ampio del progetto di distretto culturale evoluto che viene portato avanti in città da goodwill sotto la mia supervisione scientifica. Nell’articolo si riconosce che il Festival ha dato alla città una notevole visibilità internazionale e che esso riscuote notevole successo presso i giovani, ma allo stesso tempo si obietta che ciò avviene in un quadro di “malumori sempre più costanti” da parte della cittadinanza, in quanto vi sarebbe un forte scollamento tra le tematiche affrontate nel festival (quelle dell’arte contemporanea, appunto) e la sensibilità della comunità locale “ancora ancorata (sic) a espressioni artistiche moderniste”. L’autore osserva che a suo parere si sarebbe dovuto procedere ad una maggiore “partecipazione collettiva e discussione partecipata” in una fase preliminare, rimandando il progetto ad un momento in cui la comunità fosse stata più ‘pronta’. Non gioverebbero, secondo l’autore, anche gli “enormi costi (400.000 euro di contributo diretto comunale)”.
Partiamo da quest’ultimo punto. Non so davvero dove l’autore dell’articolo si sia informato, ma la sua fonte non è molto affidabile: dei 400.000 euro di costo del festival, solo 100.000 sono sostenuti dall’amministrazione comunale. Gi altri 300.000 sono interamente coperti da partnership private e tecniche. Quindi, tanto per cominciare, semplicemente facendo riferimento alle fonti di finanziamento, ogni euro di risorse comunali investite si moltiplica per tre, senza tener conto di alcun effetto indotto. Inoltre: è possibile dire che se un festival come quello di Faenza costa 400.000 euro si tratta di costi ‘enormi’? Mi chiedo se l’autore abbia un po’ di esperienza di quanto costa mediamente un festival di profilo internazionale. Ci sono festival che hanno molta meno visibilità e impatto (in tutti i sensi) di quello di Faenza che costano molto, molto, molto di più. Ho partecipato personalmente ad alcune riunioni tecniche a porte chiuse con addetti ai lavori che apprendendo qual era il costo del Festival semplicemente non riuscivano a crederci.
Ma questa, come osserva anche l’autore dell’articolo, è solo una considerazione a margine. Il vero problema è quello della partecipazione. Sarebbe stato giusto dunque aspettare a far partire il progetto puntando ad un maggior coinvolgimento iniziale ‘dal basso’? Io non so se l’autore fa queste osservazioni sulla base di una concreta esperienza di progettazione e gestione di processi di questo tipo. Quello che posso dire sulla base della mia esperienza è che in ambito culturale la partecipazione è fondamentale, ma è sempre l’offerta a creare la propria domanda, e mai viceversa. Se la committenza artistica fosse stata decisa a maggioranza democratica, come mostrano gli artisti concettuali russi Komar & Melamid nel loro famoso progetto The Most Wanted Paintings, la storia dell’arte semplicemente non sarebbe mai esistita e noi avremmo musei pieni di quadri di genere ad olio con personaggi storici, animali, alberi e corsi d’acqua. Nessun territorio attraversa un vero cambiamento culturale se non a seguito di uno shock, attentamente orchestrato certo, ma ciò nondimeno fortemente discontinuo rispetto al passato, come mostrano le esperienze di sviluppo locale a base culturale di maggior successo degli ultimi anni (ad esempio, quella di Lille e della relativa regione del Nord-Pas de Calais). Il progetto di Faenza, del resto, è nato fin da subito come progetto comunitario, coinvolgendo un gran numero di associazioni culturali cittadine, trovando pieno sostegno nell’amministrazione comunale e venendo presentato alla città in un incontro pubblico molto intenso e partecipato, per creare una piattaforma condivisa che si potesse allargare progressivamente, di anno in anno, coinvolgendo fasce di popolazione e di operatori locali sempre più ampie. Ed è quello che sta accadendo: un numero crescente di portatori di interesse del territorio si sta accorgendo che questo progetto crea valore e potenzialità di sviluppo, come ci dimostra del resto anche una rilevazione sul campo che il nostro gruppo di lavoro ha appena condotto su un campione selezionato di operatori istituzionali e privati di vario genere, sulla base di rigorose interviste semi-strutturate, e che sarà presentata a giugno a Copenhagen nel corso del convegno annuale dell’ACEI, l’associazione internazionale degli economisti della cultura.
Teniamo anche conto che il Festival, ideato da me e Alberto Masacci e interamente organizzato da goodwill, è alla sua terza edizione: è un progetto appena agli inizi, ed è già sorprendente, obiettivamente, che abbia prodotto un impatto come questo: un progetto che non ha ancora equivalenti in nessuna altra parte del mondo (anche se quest’anno verranno rappresentanze istituzionali da vari paesi a studiare il modello); una community estremamente attiva di 500 giovani volontari (di cui la metà del territorio); una città in cui fioriscono nuovi spazi, studi di artista, nuove attività creative, che comincia ad essere considerata un luogo interessante in cui trasferirsi; 350 relatori-visitatori di livello internazionale che conoscono la città e spesso tornano nelle edizioni successive anche se non invitati come relatori; un pubblico vasto e crescente, fortemente interessato alla programmazione e/o al ricchissimo cartellone di iniziative collaterali (quest’anno più di 70, limitandosi soltanto a quelle ufficiali, che coinvolgono un numero notevole di associazioni culturali del territorio, di realtà giovanili, di operatori economici). Certo, se si estrae un faentino a caso e se gli si chiede cosa pensa del festival o del progetto del distretto culturale evoluto probabilmente risponderà che non ne sa nulla. Ma non credo onestamente che se si pescasse un modenese a caso chiedendogli del Festival della filosofia, o più in generale un cittadino a caso di una città in cui si tiene un festival internazionale consolidato o un progetto di successo di sviluppo locale culturale si otterrebbero risultati diversi. Perché certe dinamiche si sviluppino fisiologicamente, e soprattutto perché si diffondano nella popolazione locale, ci vuole tempo: e l’esperienza internazionale dimostra che il ciclo medio di maturazione di progetti di sviluppo locale a base culturale è di circa dieci anni. Qui siamo nel terzo, direi che siamo anche in anticipo sulla tabella di marcia.
Ognuno ha diritto ad esprimere le proprie opinioni, ma prima di emettere giudizi così lapidari su progetti tanto delicati e complessi, a cui lavorano con dedizione tante persone per tutto l’anno sarebbe meglio informarsi in modo corretto e attendibile, verificare le proprie fonti (qualcuno in giro che ha voglia di sfogarsi lo si trova sempre) e interrogarsi responsabilmente sulla propria reale esperienza sul campo. Invito fin d’ora Vincenzo Estremo a venire a Faenza quest’anno e a verificare di persona se il Festival di Faenza è partecipato o no dalla città. Sono sicuro che troverà l’esperienza di suo interesse.