Nata con l’intento di apportare nuova linfa ai luoghi della cultura gestiti dallo Stato attraverso l’apertura ai privati di un mercato a lungo inaccessibile, la Legge Ronchey non è riuscita a prevedere gli sviluppi futuri della sua applicazione pratica. Lungi dall’aver dato vita ad un sistema tanto efficiente quanto trasparente, la gestione delle gare per l’affidamento dei servizi aggiuntivi dei musei e delle aree archeologiche statali è stata più volte oggetto di indagine da parte delle autorità di controllo. Seguendo un iter tutt’altro che lineare fatto di norme prima introdotte, poi riviste e alla fine abrogate, il nuovo regolamento che fissa le linee giuda per la predisposizione dei bandi di gara sembra essere pronto, anche perché il 30 giugno scade il termine entro il quale le nuove gare devono essere bandite.
Secondo quanto riportato da Antonello Cherchi sulle pagine del Sole 24 Ore risultano essere due le grandi novità introdotte dalle nuove disposizioni in materia di servizi aggiuntivi. La possibilità di indire un singolo bando per ciascun servizio aggiuntivo, avendo il Decreto Legge 30 aprile 2010 n. 64 “Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali” abrogato l’articolo 14 del Decreto Legge 1 ottobre 2007 n. 159 che prevedeva l’affidamento dei servizi in forma integrata, e la suddivisione dei luoghi della cultura in tre diverse categorie – piccoli, medi e grandi – a seconda del numero dei visitatori.
La maggiore preoccupazione, espressa da alcuni operatori del settore, sembra riguardare la tutela della concorrenza all’interno di un mercato in cui predominano pochi, grandi gruppi. Una relazione della Corte dei Conti ha messo in evidenza il fatto che “otto società concessionarie gestiscono in Italia il 90% dei servizi, delle quali una è addirittura presente in 24 musei con ricavi che si avvicinano al 24% del totale”. A questo proposito il Libro Bianco “La valorizzazione della cultura fra Stato e mercato”, redatto da Confindustria con la collaborazione di Confcultura, parla di fenomeni di concentrazione ancora più rilevanti e preoccupanti se si prendono in considerazione le 130 concessioni nazionali. Di queste “le concessioni ad associazioni temporanee di imprese (ATI) risultano essere 108, mentre quelle a raggruppamenti (RTI) sono appena 2 e le restanti 20 concessioni sono individuali. Concentrando l’attenzione solo sulle ATI, 39 (pari al 30%) fanno riferimento ad un unico gruppo imprenditoriale […] e non sono rari anche fenomeni di incrocio tra partecipazioni societarie delle imprese concorrenti e tra membri dei consigli di amministrazione e tra manager delle diverse imprese”.
E’ evidente che esista un problema di natura concorrenziale. Difficile prevedere se la “parcellizzazione” delle gare, come è stata definita la nuova modalità di affidamento, contribuirà ad acuire oppure a ridimensionare le anomalie oggi presenti. Ciò che il nuovo regolamento potrebbe fare, al di là dell’istituzione di nuovi principi guida, è stabilire delle norme che indichino in maniera chiara quali siano i soggetti autorizzati a partecipare alle gare, prevedendo dei requisiti più stringenti al fine di assicurare un’equa distribuzione del mercato dal punto di vista competitivo. Se oltre tutto si riuscisse anche a far sì che le concessioni dei servizi aggiuntivi fossero direttamente disciplinate dalle direttive comunitarie in materia e dal codice dei contratti pubblici, cosa che al momento non è, forse buona parte dei problemi scomparirebbe o sarebbe di più facile risoluzione.