Se fino a qualche anno fa la parola creatività veniva relegata alla descrizione di comparti legati soprattutto alla sfera artistico-culturale, essere creativi oggi presuppone la conoscenza di orizzonti molto più vasti. Complice la crisi economica a livello internazionale e la ormai annosa stagnazione del mercato del lavoro, reinventarsi e reinventare i propri ambiti d’azione non è mai stato più urgente.
Alla base, la consapevolezza dell’esistenza di un’economia creativa  che, come postulato già nel 2006 dal noto economista americano Richard Florida, offre un valore economico tangibile agli spunti creativi delle diverse professionalità. In un momento in cui investire in nuovo capitale umano diventa un’impresa ardua, le aziende cercano idee alternative e originali per scappare dalle appiccicose trame legate a gerarchie statiche e burocratiche. E lo fanno con creatività, la quale inaspettatamente può però rivelarsi un’arma a doppio taglio. Creare idee innovative nel 2010, aiutati da internet e social network, è sicuramente molto più facile che 20 anni fa: gli stimoli sono più numerosi e le sollecitazioni variegate. Il valore intrinseco dell’idea creativa è, inoltre, semplice da esportare e replicare i concetti ha un costo che, in alcuni casi, è molto vicino allo zero. Peter Coy, economista del Business Week, affermava recentemente come la società odierna sia ormai arrivata ad un crocevia importantissimo: si sta passando, infatti, per dirla all’americana,  dalla società dell’hamburger a quella del software.
Se fino a pochi anni fa mister McDonald era il re indiscusso dello sviluppo e del successo nel campo manageriale, oggi la catena dei fast food americani riesce a fatturare a malapena un decimo di quello che fanno grandi società come Yahoo, Google o Microsoft. Questo perché l’economia, come sostiene Gary Hamel, un altro guru delle strategie business (etichettato dal Wall Street Journal come il più influente “Business thinker”), si è trasformata da economia industriale ad economia prettamente creativa. Che però, ha anch’essa i suoi rischi: se il caro e vecchio McDonald, infatti, può ancora affermare di possedere la materia prima per cucinare i suoi hamburger, la stessa cosa non possono fare i vari Bill Gates, Larry Page e Sergey Brin, così come tutti coloro i quali possiedono idee creative nella testa dei loro dipendenti, essendo essi a capo di aziende fondate sulla conoscenza. Il capitale umano acquista così un’importanza mai avuta prima, tanto che fondamentale diventa, per le grandi società, creare un ambiente di lavoro appagante e stimolante che alimenti l’intelletto del personale allontanando l’idea di un licenziamento volontario.
È un rapporto di scambio tanto basico quanto proficuo che si alimenta per osmosi: i dipendenti trattengono di volta in volta stimoli semplici, importanti per l’avviamento mentale iniziale, rilasciando progressivamente stimoli complessi, compositi, che l’azienda stessa saprà riorientare e offrire al mercato.
La cultura, in questo campo, esercita un ruolo centrale per il raggiungimento di quella che viene comunemente definita “culture-based creativity”, una creatività che si spinge cioè oltre la semplice tecnologia e innovazione e trova nella cultura un terreno fertile su cui crescere e svilupparsi.
Esempi di best practices nel settore non si hanno solo nella Silicon Valley: per migliorare il clima aziendale e il rapporto tra i dipendenti, la TILLT, agenzia culturale svedese, propone ogni anno delle residenze d’artista che impegnano il personale in attività artistiche concrete così come in Italia, gran parte degli asili di Reggio Emilia sono stati citati dallo studio KEA per i loro modelli di apprendimento creativo in cui insegnanti e personale amministrativo collaborano da anni con artisti professionisti italiani e internazionali che si impegnano a formare i piccoli allievi seguendo dei percorsi creativi ed artistici.
E se, come ha dichiarato Tom Aageson, direttore esecutivo della Museum of New Mexico Foundation, l’economia della cultura pesa per il 7% sul Pil del mondo, capiamo allora l’investimento sostenuto dall’Unesco che, già dal 2004, porta avanti il Circuito delle Città Creative, network concepito per stimolare lo sviluppo sociale, economico e culturale di città virtuose, incubatori di potenzialità creative senza eguali che contribuiscono al rinnovamento e all’evoluzione dello spazio urbano stesso.
Per entrare nel circuito, una città deve dimostrare di possedere una caratteristica creativa spiccata in grado di attirare nuovi talenti, imprese e capitali da reinvestire poi nell’abbattimento della concorrenza estera in quello stesso ambito. La volontà di fare bene e meglio viene in questo modo incentivata, creando circoli virtuosi in cui diventa facile inserirsi.
Ad oggi, il network delle Città Creative è composto da: Città Creative per la Musica (Bologna, Siviglia, Glasgow, Gent), Città Creative per la Letteratura (Edimburgo, Melbourne, Iowa City), Città Creative per la Folk Art (Aswa, Santa Fe, Kanazawa), Città Creative per il Design (Berlino, Buenos Aires, Montreal,Nagoya e Kobe, Shenzhen), Città Creativa per le Media Arts (Lione), Città Creativa per la Gastronomia (Popayán), Città Creativa per il Cinema (Bradford).