Siamo in costante multitasking

“Workload is unavoidable […] Distraction is unavoidable […] You must learn to dance among many tasks” (Allen, 2003).

Nella maggior parte delle situazioni quotidiane, anche quando non ci facciamo caso, ci troviamo in condizioni di multitasking (1). Gestire la grande quantità di stimoli e richieste che provengono dall’ambiente è sicuramente molto difficile, tuttavia, dedicarsi a più attività piuttosto che concentrarsi su un unico compito sembra essere diventato un fatto naturale. La sensazione che solitamente si prova è quella di poter gestire meglio gli impegni, evitando noia e ripetitività.
L’impegno continuo in attività multiple è consentito dalle tecnologie informatiche e della comunicazione, che favoriscono il multitasking. L’interazione con la tecnologia, in primis nei luoghi di lavoro, rende possibile lo svolgimento di attività differenti attraverso espedienti tecnologici e grafici sempre più raffinati. Ad esempio, la possibilità di mantenere aperte contemporaneamente molte finestre nel desktop, che rappresenta il primo sviluppo del paradigma della direct manipulation (Schneiderman, 1998), consente di eseguire allo stesso tempo numerose attività differenti. Tuttavia, l’utilizzo che si fa oggi delle finestre multiple è così imponente che rischia di diventare un ostacolo che frammenta l’attività anziché supportarla.
Le finestre multiple, ma anche i messaggi di notifica, le e-mail e i programmi per la messaggeria istantanea (2) se da una parte favoriscono il multitasking e alimentano l’impressione di efficienza rendendo più facile gestire diversi compiti, d’altra parte
possono avere effetti fortemente negativi. Ad esempio, Gonzalez e Mark (Gonzalez e Mark, 2004) hanno stabilito che gli impiegati negli uffici non riescono a rimanere concentrati nella stessa attività per più di tre minuti consecutivi prima di essere interrotti da una telefonata, un’e-mail, o da un collega. Evidenze come questa dimostrano come il tempo di lavoro sia frammentato in una miriade di piccole unità entro le quali è impossibile portare a termine un singolo progetto e si viva di fatto in una condizione di ‘attenzione parziale continua’.
La gestione di attività multiple e l’utilizzo simultaneo di diverse applicazionisono dunque caratteristiche peculiari del modo di vivere e lavorare nella società odierna, mai così opportunamente definita ‘contemporanea’. Ma fino a che punto siamo in grado di far fronte al multitasking?

L’illusione della simultaneità

Anche se può non sembrare, vivere in una costante condizione di multitasking comporta un grande dispendio di risorse cognitive. La nostra mente sembra essere in grado di passare molto velocemente da un’attività all’altra, tanto da darci l’illusione della simultaneità. Quando ci troviamo in situazioni di multitasking, esperiamo una condizione di attenzione divisa che può essere definita come la capacità di prestare attenzione ed elaborare informazioni che si presentano contemporaneamente e si riferiscono ad attività (‘working spheres’, Gonzalez e Mark, 2004) differenti.
In realtà, quando una delle attività diventa complessa, o anche semplicemente è nuova, inusuale, tendiamo a sospendere tutti gli altri compiti. Sebbene esistano contesti in cui riusciamo ad eseguire attività differenti senza che questo ci crei alcuna difficoltà, questa evenienza è più l’eccezione che la regola e sono molti i casi in cui il multitasking non riesce. In generale, tutto dipende da quanto uno dei due compiti richieda la presenza costante di un’elaborazione attentiva (conscia). Se uno dei due compiti, attraverso la pratica, fosse diventato automatico, noi saremmo perfettamente in grado di eseguirlo senza prestare attenzione, che di conseguenza potrebbe essere completamente direzionata verso l’altro compito. Ad esempio, è questo il caso di quando si cammina e si parla contemporaneamente, ci si può concentrare sulla conversazione perché l’atto del camminare è diventato automatico. Anche la guida di un’auto è in gran parte un processo automatizzato (quindi a basso utilizzo di risorse cognitive). Spesso, durante la guida, si ascolta la radio o si conversa con il passeggero senza alcuna fatica. Tuttavia, in condizioni di traffico intenso (alta imprevedibilità) o anche quando si sta cercando di orientarsi in strade mai attraversate prima, si interrompe la conversazione, o si spegne la radio, proprio perché l’aumento della difficoltà del compito ‘satura’ le capacità di attenzione ed elaborazione dell’informazione. Allo stesso modo, quando ci troviamo in ufficio, possiamo parlare al telefono con un collega mentre ‘giocherelliamo’ con il computer. Tuttavia, se la conversazione dovesse vertere su un argomento rilevante e articolato, dovremmo smettere di giocherellare e dedicare tutta l’attenzione al dialogo in corso. Anche per rendere conto di queste variazioni di capacità, la Psicologia Cognitiva ha cercato di elaborare misure specifiche, come il carico di lavoro mentale.

Il concetto di carico di lavoro mentale

Il concetto di carico di lavoro mentale (o carico cognitivo) “si riferisce all’idea che, durante l’attività, le informazioni da trattare possano superare le capacità di elaborazione conscia, con particolare riferimento alle risorse attentive e alle capacità della memoria a breve termine. Quasi tutte le attività umane implicano un certo grado di automazione (nessuno sforzo cognitivo) e un certo grado di controllo cosciente (dispendioso e impegnativo)” (Mariani, 2007). In qualche modo, quindi, il concetto di carico cognitivo può essere utilizzato per fare previsioni sulla capacità umana di gestire attività differenti e impegnative. Sfortunatamente, il carico di lavoro mentale non può essere misurato in modo tanto preciso come avviene per quello fisico ma deve essere dedotto da misure più o meno indirette, relative alla prestazione (o comportamentali), soggettive e fisiologiche.
Le misure di prestazione assumono che ad ogni aumento nella difficoltà del compito consegua un peggioramento di efficienza e qualità di esecuzione. Il rallentamento o l’aumento del numero di errori commessi diventano così indici del carico di lavoro mentale imposto dal compito in cui ci troviamo impegnati. Una variante delle misure di prestazione implica una distinzione tra compito primario e secondario (condizione di doppio compito). Il compito primario è l’attività che il soggetto deve svolgere in modo prioritario, mentre il compito secondario deve essere svolto solo quando il compito primario lo permette. Ad esempio, per misurare il carico di lavoro mentale imposto dal compito di guida si può chiedere ad un soggetto di guidare per Michele Mariani, Luca Ferraro  un tratto di strada (compito primario) e, contemporaneamente, premere un bottone posto sul cruscotto ogni volta che nota l’accensione di una spia posta in un angolo sul parabrezza (compito secondario – peripheral task detection). Il numero di accensioni della spia non rilevate dal soggetto forniscono una misura dell’impegno richiesto dal corretto svolgimento del compito primario (guidare). In altre parole, in condizioni di doppio compito, è possibile stabilire l’impegno mentale richiesto dal compito oggetto della misurazione (compito primario) in funzione della capacità di continuare ad eseguire un compito concorrente (compito secondario). Se questa diminuisce, se ne può dedurre che il carico di lavoro imposto dal compito primario sia elevato (3).
Le misure soggettive si riferiscono essenzialmente alla somministrazione di questionari standardizzati che richiedono, dopo l’esecuzione di un compito, di rispondere ad una o più domande che rilevano la percezione di difficoltà ed impegno richiesta dal compito appena svolto. Tra i questionari più utilizzati si è soliti menzionare il NASA Task Load Index (TLX – Hart e Staveland, 1988). Il TLX richiede al soggetto di valutare il compito appena effettuato rispetto a sei scale che fanno riferimento ad aspetti che, collettivamente, forniscono un indice complessivo del carico di lavoro mentale: impegno mentale; impegno fisico; pressione temporale; prestazione, sforzo e frustrazione. Il questionario si è dimostrato valido ed affidabile nel discriminare i livelli di carico mentale imposti da un gran numero di compiti e ruoli operativi differenti (Di Nocera, 2004). Infine, gli indicatori fisiologici forniscono una stima del carico di lavoro mentale sulla base dell’intensità di attivazione fisiologica. L’esempio più semplice è l’aumento del battito cardiaco che accompagna l’aumentare dell’impegno richiesto nell’eseguire un compito dato. Altri indici fisiologici sono: potenziali cerebrali evocati, dilatazione della pupilla,
respirazione, cambiamenti nei livelli ormonali, ecc.
Al di là delle differenti modalità, e delle loro differenze in termini di facilità d’uso e validità (vedi anche Rubio et al., 2004), il problema della misurazione del carico di lavoro mentale risiede poi nella capacità di adattamento continuo della mente umana. A differenza dei compiti fisici, che mantengono caratteristiche pressoché stabili, le modalità di esecuzione di un compito mentale mutano in continuazione in funzione dell’esperienza e delle caratteristiche del compito (Bagnara, 1984). Nella figura (figura 1) che segue si possono individuare due diverse curve di prestazione relative allo svolgimento di compiti differenti. In A il compito è complesso, perché l’incremento della qualità della prestazione comporta un incremento lineare delle risorse impiegate. E’, questo, un tipico esempio di condizione resource limited, nel quale, oltre un certo limite, non sarà più possibile migliorare la propria prestazione a causa di una carenza di risorse. In B invece la situazione è differente perché tra qualità della prestazione e quantità di risorse impegnate non sussiste più una relazione diretta. È questo il caso di una prova troppo semplice, che dopo un’iniziale condizione resource limited, diventa data limited: allocare nuove risorse infatti, non produrrebbe alcun aumento nella qualità della prestazione, perché non è possibile migliorare ulteriormente l’esecuzione del compito, che è diventato automatico (associativo).

FIGURA 1 – Funzione prestazione – risorse. (Norman, Bobrow, 1975)

 

– Il problema dell’affaticamento mentale

In caso di esposizione prolungata a carichi di lavoro mentale elevati anche le capacità cognitive, così come accade per le capacità fisiche, si deteriorano. In generale, la fatica mentale può essere definita come una condizione di malessere ed efficienza ridotta, dovuta ad un impegno eccessivo e prolungato, che comporta una riduzione della capacità di rispondere agli stimoli dell’ambiente esterno. Ad esempio, il campo visivo (lo spazio fisico normalmente percepito da uno sguardo), che di solito approssima a 180°, può, in conseguenza dell’affaticamento, ridursi dando origine alla cosiddetta ‘visione a tunnel’. Si è poi soliti distinguere tra tre diversi tipi di affaticamento: fatica acuta, che consegue ad un impegno lavorativo intenso svolto in un tempo breve (molto simile al sovraccarico mentale); fatica cronica, che consegue ad un impegno lavorativo di intensità variabile prolungato nel tempo e può causare la sindrome da stanchezza cronica; fatica circadiana, legata al ritmo sonno-veglia e dovuta ad un’alterazione nel ritmo stesso (come capita nel lavoro notturno), o da un riposo insufficiente o inadeguato. Diversamente dal carico di lavoro, i cui effetti si possono neutralizzare semplicemente attraverso brevi
pause e ristrutturazioni del compito, la fatica mentale si recupera solo attraverso periodi di riposo prolungati.
L’affaticamento mentale è il tipo di disturbo più frequente dei ‘knowledge workers’, per i quali è difficile parlare di problemi dovuti alla necessità di trattare una quantità di informazioni superiori alle capacità cognitive (e quindi ad un eccesso di carico di lavoro) date. Mancando un vero e proprio limite temporale oltre il quale un errore non recuperato ha come esito un fallimento che può comportare gravi conseguenze (come ad esempio nel caso dei controllori di volo – si veda Sperandio, 1980), gli effetti negativi sono piuttosto ritardi cronici, affaticamento, frustrazione, insoddisfazione e stress. Assumendo che gli strumenti (e.g. il foglio di calcolo, il software per la gestione del personale, ecc.) siano stati progettati in maniera  corretta (siano, cioè, ‘usabili’), il problema dell’efficienza e dell’affaticamento mentale nelle mansioni moderne inizia recentemente però ad essere studiato soprattutto in relazione ad un’altra condizione specifica: la capacità di gestire le interruzioni.

– Il problema delle interruzioni

Secondo una recente indagine condotta dalla Fondazione Europea per il Miglioramento delle Condizioni di Vita di Lavoro (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2007), un terzo degli occupati dell’Unione Europea dichiara di essere interrotto spesso o molto spesso durante l’attività lavorativa. Ad ogni interruzione l’attenzione viene più o meno forzatamente indirizzata verso informazioni irrilevanti per il compito che si sta eseguendo. Gestire attività multiple, differenti e interrotte di frequente implica la capacità di dividere e riorientare continuamente l’attenzione e richiamare dalla memoria set di informazioni distanti (in senso semantico) tra loro.
Normalmente l’interruzione viene suddivisa in tre fasi principali che possono essere temporalmente distinte in ‘prima’, ‘durante’ e ‘dopo’ l’evento ‘interruzione’. Nello schema che segue possiamo individuare le singole tappe in cui può essere suddiviso il ciclo dell’interruzione durante il lavoro al computer:

FIGURA 2 – Fasi di un ciclo di interruzione (Iqbal e Horvitz, 2007).

Secondo lo schema, l’utente inizia ad eseguire un compito (definito primario) utilizzando una data applicazione. Ad un certo punto compare una notifica, per esempio di ricezione di un’e-mail, che lo avvia verso una fase di preparazione all’interruzione al termine della quale si sospende l’esecuzione del compito primario e si dirige la propria attenzione verso l’applicazione ‘interrompente’. Una volta che l’interruzione è terminata, inizia il periodo cosiddetto di ‘resumption lag’, ovvero il lasso di tempo necessario per riprendere l’esecuzione del compito principale precedentemente interrotto. Solitamente, questo periodo è considerato un punto critico perché in esso si concentrano le maggiori possibilità di compiere errori o di ripetere azioni che sono già state eseguite prima dell’interruzione. Le interruzioni frequenti e impreviste hanno un effetto distruttivo per la concentrazione. Una volta che (a seguito di un’interruzione) un nuovo set di informazioni entra nella memoria a breve termine, occorre tempo perché l’informazione su cui si lavorava in precedenza possa essere recuperata (il tempo medio che occorre per ritornare all’attività interrotta varia da 15 a 25 minuti). Prevenire o limitare questo tipo di inerzie non è semplice soprattutto se l’interruzione arriva improvvisamente non lasciandoci il tempo per memorizzare le informazioni necessarie a riprendere poi le azioni che si stavano eseguendo.
Il problema delle interruzioni non è quindi l’essere interrotti di per sé, ma il tempo che si impiega per recuperare la concentrazione sulle attività sospese. Cosa stavamo facendo? Prendere come esempio la notifica di ricezione delle e-mail non è casuale, perché questo tipo di interruzione è risultata molto più importante di quanto possa sembrare (Jackson et al., 2001). La reazione più comune alla notifica di un’e-mail è quella di rispondere subito (entro sei secondi) anziché ritardare la risposta ad un momento più opportuno, e in questo senso, questo tipo di interruzione può essere paragonato a alle telefonate. Nonostante il tempo impiegato per riprendere la propria attività sia significativamente più basso rispetto a quello necessario dopo una telefonata, le interruzioni dovute alla notifica di ricezione di e-mail sono molto più frequenti. Se il proprio programma di gestione delle e-mail è impostato per controllare i messaggi ogni cinque minuti è possibile che in una giornata lavorativa di otto ore le interruzioni da e-mail arrivino ad essere 96 (Jackson et al. 2001). Anche quando fosse possibile, poi, è difficile proteggersi dalle interruzioni. Numerose interruzioni possono far sentire importanti, richiesti, utili e impegnati. Logorano, ma aumentano (perlomeno in alcuni) l’autostima.

Multitasking e lavoro in ufficio: non tutto il male viene per nuocere

Abbiamo già detto che interruzioni frequenti e prolungate possono causare inerzie e dimenticanze e un’alta probabilità di commettere errori, tuttavia esistono anche studi che mostrano come le interruzioni possano avere un impatto nullo o positivo sulle consegne da portare a termine. Pashler (Pashler, 2001), ad esempio, ha dimostrato come una grande familiarità con i compiti comporti una riduzione quasi completa dello switching cost4. Interrompendo i soggetti durante l’esecuzione di compiti semplici Monk e Mason (Monk e Mason, 2004) dimostrano che, rispetto a interruzioni sporadiche, interruzioni relativamente frequenti riducono il resumption lag. Una recente ricerca dell’Università di Melbourne ha trovato che gli impiegati che si interrompono visitando siti come Facebook o Youtube riescono a portare a termine il 9% in più del lavoro a fine giornata. Secondo i ricercatori la ‘navigazione di intrattenimento’ sarebbe quindi utile a mantenere la concentrazione.
Quest’ultima ricerca porta l’attenzione sul fatto che gli effetti delle interruzioni potrebbero dipendere non tanto dalla loro frequenza, quanto dalla volontarietà. Le interruzioni volontarie, al contrario di quelle indesiderate e inaspettate, potrebbero
non avere effetti negativi sulla prestazione o, addirittura, facilitarla.
Questa ipotesi è stata di recente parzialmente confermata dai risultati di una ricerca condotta presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia che ha rivelato come, rispetto a quelle forzate, le interruzioni spontanee (definite appunto volontarie) interferiscano in maniera molto minore sulla prestazione del compito primario (Mariani e Ferraro, 2009). Durante l’esperimento, i soggetti hanno eseguito quattro tipologie di compiti: calcolo, editing, drag&drop e analisi video.
Ogni compito veniva interrotto da una notifica che avvertiva della presenza di un compito secondario. Erano presenti tre condizioni sperimentali: interruzione forzata, interruzione libera e interruzione ‘semi-libera’. Nella prima condizione i soggetti dovevano interrompersi non appena vedevano la notifica, nella seconda quando lo desideravano e nella terza solo quando si trovavano all’interno di un dato segmento del compito principale.
I risultati mostrano come i soggetti decidano spontaneamente di interrompere l’esecuzione del compito primario nei momenti di basso workload (5), senza pregiudicare l’efficienza nell’esecuzione del compito principale. Inoltre, nella condizione a ‘interruzione libera’ i soggetti percepiscono un livello minore di sforzo e noia rispetto alla condizione di ‘interruzione forzata’.

Conclusioni

Nonostante il fatto che a (quasi) tutti piacerebbe vivere meno velocemente e meno oberati dagli impegni, la possibilità di agire in sequenza, affrontando un compito per volta, è diventata sempre più rara. La penetrazione sempre più invasiva delle tecnologie informatiche e della comunicazione ci rende più accessibili e più (spesso illusoriamente) portati al multitasking. Se però per un computer passare da un’applicazione ad un’altra è solo una questione di velocità del processore, i nostri processi cognitivi funzionano in modo del tutto differente. Svolgere attività multiple accompagnate da interruzioni continue è mentalmente impegnativo e i costi che si pagano non riguardano tanto un maggiore affaticamento generale ma una diminuzione di efficacia e un minor senso di controllo sulla gestione delle proprie attività. Per contrastare questi effetti negativi, ultimamente, la ricerca va nella direzione della progettazione di software dedicati che dovrebbero limitare la probabilità di interruzioni nei momenti di carico cognitivo elevato (quando cioè i costi in termini di decadimento della prestazione sono maggiori). Ad esempio, un software ‘intelligente’ potrebbe rimandare la notifica dell’arrivo di un messaggio email fino a che l’utente non abbia completato un segmento significativo del compito che sta svolgendo. Anche non considerando la difficoltà di realizzazione di questo tipo di ‘filtri’, e quindi dandone per scontata la piena funzionalità, i dubbi sulla loro utilità non mancano. Alcune iniziali evidenze sperimentali indicano infatti che le persone sono in grado di decidere spontaneamente se e quando conviene interrompersi e, magari, passare ad un’attività differente. In più, non sono pochi i casi in cui è esperienza comune quanto l’interrompersi o il distrarsi sia funzionale a superare momenti di blocco (si pensi all’importanza dell’incubazione nei processi creativi). Più che ‘nascondere’ possibili fonti di distrazione attraverso espedienti tecnologici, allora, ci sembra che il miglior modo per limitare gli effetti negativi dovuti alle interruzioni e ai cambiamenti frequenti di attività sia, perlomeno per quanto riguarda in knowledge workers, diminuirne il grado di intrusività e costrittività, attraverso specifiche azioni di formazione e riorganizzazione, facendo leva sulle nostre naturali facoltà di adattamento e pianificazione opportunistica.

Note:
1. Per multitasking si intende, in questo lavoro, la capacità di gestire attività multiple, differenti e interrotte.
2. Al novero dei possibili dispositivi ‘interrompenti’, McFarlane e Latorella (McFarlane e Latorella, 2002) aggiungono anche gli screensaver, tutte le finestre pop-up e i banners.
3. Il Dipartimento dei Trasporti degli Stati Uniti stima che parlare al cellulare mentre si guida possa essere una delle cause nel 50% degli incidenti. Parlare al cellulare (compito secondario) distrae risorse dal compito primario (guidare) e il rischio d’incidenti aumenta di quattro volte. Chi parla al cellulare: ha minor consapevolezza di ciò che succede in strada; non si accorge della segnaletica; mostra più variazioni nel mantenere velocità e direzione; mantiene una distanza di sicurezza ridotta; ha tempi di reazione e tempi di frenata più lunghi. L’utilizzo di un sistema viva-voce poi, nonostante la legislazione attuale lo consenta, non comporterebbe alcuna differenza significativa. Non è tanto il fatto di avere una mano impegnata nel manovrare il telefonino, quindi, ad essere pericoloso, quanto il fatto che la conversazione richiede una quantità sostanziale di risorse cognitive. Non conoscendo in anticipo ciò che il nostro interlocutore sta per dire, le nostre risorse mentali sono in gran parte impegnate nella comprensione della conversazione e nella ricerca di una risposta che è unica e appropriata rispetto alla discussione in corso.
4. Con switching cost si intende il costo che si paga (ad esempio in termini di tempo) per passare da un compito all’altro.
5. Durante l’esecuzione di un compito, il carico cognitivo non è costante, bensì presenta un andamento caratterizzato da momenti, solitamente coincidenti con il passaggio da un segmento di attività ad un altro (subtask boundaries o natural breaking points), di alto workload e di basso workload. Questo dato è in linea con le teorie che interpretano l’attenzione come una risorsa (e.g. Wickens, 2002) che il sistema esecutivo non alloca in modalità statica all’inizio di un compito, ma in modalità dinamica, durante tutto il perdurare dell’attività in corso (si veda anche Iqbal e Horvitz, 2008).

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Nota: questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info