Parlare di scuola in tempo di vacanze è una prova ardita, puro anticonformismo. Ma proprio quando non c’è l’assillo delle incombenze, che ormai per gli insegnanti sono sempre più di routine e non più sperimentali,  si ha la serenità di analizzare il presente e provare a pensare al futuro.
A questo proposito sono attivi, per esperti ed insegnanti,  corsi sul valore e le finalità dell’alternanza scuola-lavoro. La norma è regolata dalla L.N. n. 53/2003 e dal successivo decreto legislativo n. 77/2005. E’ uno strumento, forse , a torto, considerato minore, tra quelli operanti (tirocini formativi, stage, borse lavoro, ecc..) per avvicinare i giovani al mondo del lavoro. Strategia che si rifà alle decisioni di Lisbona 2001, Barcellona 2002, nell’ambito del processo di avvicinamento fra istruzione, formazione professionale e il sistema delle imprese.
Esistono scuole superiori che aderiscono a tale esperienza, convenzioni con le varie associazioni datoriali (Industria, artigianato, commercio, in primis), una metodologia formativa, docenti che si specializzano, piccole risorse finanziarie per la scuola ma l’esperienza avviene di solito al IV anno scolastico (il V anno , “c’è l’esame di maturità e non si può far nulla!” – questo è stato il frequente richiamo degli insegnanti) , pertanto in un periodo in cui la scelta professionale o di proseguimento degli studi universitari è ancora in nuce e appena abbozzata.
Proprio in un contesto di crisi di responsabilità etica, sociale, in cui l’insegnante si trova spesso solo di fronte agli avvenimenti anche culturali, ai nuovi modi di relazionarsi delle famiglie con la scuola,  un’esperienza di collaborazione fra il mondo esterno e la scuola può contribuire a dare un legame, culturale e di identità professionale, tra chi forma e chi sperimenta sul campo le conoscenze acquisite. Però il più delle volte l’esperienza (di norma con durata di 4 settimane) è squilibrata, direi istituzionalmente, a favore della scuola. E’ ben vero che la progettazione formativa, la metodologia didattica sono di competenza scolastica ma il mondo imprenditoriale è consapevole di questi strumenti? Il territorio italiano per il 90% è costituito da micro imprese dove pochi addetti e un padroncino, datore di lavoro, lavorano, lavorano e chiedono essenzialmente meno carte da compilare alle loro associazioni, ormai sostituitesi ai più onerosi commercialisti. Questo è il luogo, dove anche oggi, con numeri in regresso, si va a fare un’esperienza di lavoro , soprattutto se si è diplomati. La legge prevede al  tutor scolastico un corrispondente tutor aziendale che per le imprese può corrispondere anche nel rappresentante legale.
Quali garanzie ci sono affinché il giovane, del tutto ignaro dell’organizzazione del lavoro, attui un’esperienza positiva ed efficace?
Nessun rimborso spese all’azienda, eppure si chiede di creare il primo, positivo rapporto con il lavoro. Sensibilità psicologiche, tempo a disposizione, il piacere di conversare con il ragazzo. Spesso i ragazzi ,dopo un veloce incontro di presentazione, si soffermano a vedere il lavoro, cercando di non intralciare. “Posso fare qualcosa?” la timida affermazione del più motivato. E spesso la tal cosa è fotocopiare.
Il tutor aziendale , determinante per il valore dell’esperienza, andrebbe formato ma, oltre a tale utopia, perché non pensare all’utilizzo  di “nonni” pensionati, che hanno avuto precedenti esperienze, nella stessa azienda o altrove? Sarebbe  per loro un nuovo modo di vivere, rimotivante; non ci sarebbero difficoltà organizzative aziendali, si attiverebbe un colloquio intergenerazionale sempre positivo e con le stesse, modeste indennità orarie che vengono riconosciute ai nonni tutori dell’incolumità dei ragazzi alle uscite di scuola, potrebbero essere ricompensati. D’altronde la compresenza dell’ente locale, nel progetto, non può che determinare un maggior senso civico in tutti gli attori che partecipano all’esperienza di alternanza scuola-lavoro.