Intervista al prof. Severino Salvemini – Direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione all’Università Bocconi di Milano
Si è appena concluso a Torino “DNA Italia”, evento durante il quale ha presentato un convegno riguardante la rigenerazione e valorizzazione del territorio attraverso gli investimenti culturali. Qual è stata la novità impattante di questo Salone rispetto ad appuntamenti simili?
La novità di DNA Italia rispetto ad altri eventi è che si pone come un facilitatore di mercato tra una domanda, espressa da una serie di istituzioni culturali o da una serie di territori che necessitano di investimenti culturali, e un’offerta di servizi culturali, sia dal punto di vista tecnologico che dal punto di vista di contenuti. DNA Italia è una specie di “market place”, un incontro tra domanda concreta e offerta concreta mentre altre manifestazioni sul tema della cultura e dell’economia sono più che altro convegni o riflessioni concettuali su questo tema.

Cultura come patrimonio, cultura come tutela: qual è l’esatta cerniera tra il tema della valorizzazione e quello della cosiddetta “mercificazione” del bene culturale? 
Non credo in realtà che la parola “reddito” significhi mercificazione e penso invece che abbia la stessa nobiltà che può avere la parola patrimonio. Cultura come patrimonio vuol dire tutelare i beni culturali in termini di identità, di tradizione, di merito. La conservazione del nostro patrimonio va ancora raffinata, non abbiamo ancora raggiunto l’eccellenza da questo punto di vista e quindi tutti coloro i quali orientano la loro professionalità in questo ambito, dagli storici dell’arte ai sovrintendenti, sono meritevoli di andare avanti e progredire verso un nuovo modo di concepire la tutela. Il vero problema  è che, accanto a questa visione patrimoniale, coloro che si occupano di cultura,  intellettuali come operativi, hanno iniziato ad intravedere nella cultura anche un risvolto economico importante.
Non perché essa sia commerciale, ma perché influenza la struttura cognitiva di un territorio, e quindi di una popolazione, producendo effetti sulle risorse umane che lavorano nell’ambito dell’economia. Ci sono tanti modi per capire questo fenomeno: dal punto di vista economico non ci sono più i denari di una volta e quindi, per far funzionare le istituzioni culturali, bisogna avere una qualità professionale ed un’efficienza diversa da quella del passato. In tale direzione l’economia viene recuperata almeno come condizione di economicità per permettere il funzionamento dei meccanismi, impensabile con gli sprechi del passato. La sostanza, però, è che l’investimento nella cultura ha ricadute molto forti sull’economia delle istituzioni, del territorio, del distretto, sia in termini di creazione di occupazione, sia in termini di creazione di indotti, di reddito estendibile. Il dibattito incentrato sulla cultura intesa come patrimonio o reddito non deve essere visto ad escludendum ma considerando piuttosto la cultura sia come patrimonio che come reddito. Non a caso, quando in un Paese si approva la Finanziaria, il tema della cultura non è solo legato all’erudizione, ma anche allo sviluppo economico del paese.

Lei afferma dunque che le risorse sono poche e a queste bisogna adeguarsi. Secondo il ministro Bondi, invece, le risorse ci sono e sono sufficienti…
Le risorse non sono affatto sufficienti e Bondi sbaglia ad affermarlo. Ad oggi alcune istituzioni culturali si trovano a gestire il loro bilancio con risorse limitate, insufficienti, necessitano di  manovre correttive nella gestione così che possano continuare a produrre cultura. Allo stesso modo, non si può avere come unico tipo provvedimento quello di manifestare sotto Montecitorio per urlare la mancanza di risorse: bisogna darsi da fare e tenere in piedi i teatri, gli auditorium, le biblioteche con risorse diverse, riducendo in prima istanza gli sprechi, amministrando con professionalità tali istituzioni in modo che gli investimenti effettuati abbiano dei ritorni in termini di pubblico, fruizione e così via. Il compito di un ministro per i Beni e le Attività culturali è quello di orientare i fondi pubblici verso quelle istituzioni meritorie che li gestiscono a dovere, non quello di dissiparli attraverso criteri che non guardino al merito e alla razionalità quantitativa e qualitativa.

In questo momento si parla molto di tecnologia, di innovazione nell’ambito dei beni culturali. Possiamo dimostrare che inserendo in un territorio tecnologia, anche povera, automaticamente si aumenti indotto e introito?
L’aumento della tecnologia, dalla rivoluzione industriale in poi,  riduce una serie di risorse (anche occupazionali), attraverso delle efficienze. E’ possibile che dei servizi di sicurezza, oggi utilizzati attraverso dei commessi seduti su una sedia, che sfruttano potenzialità minime del loro cervello e non seguono nulla di ciò che avviene, possano essere sostituiti con soluzioni tecnologiche tali da dirottare tali figure professionali verso ruoli molto più stimolanti. Il tema della tecnologia legata al miglioramento della fruizione e della sicurezza del museo è scontato: oltre ai musei, possiamo rivitalizzare attraverso la tecnologia, tutte le istituzioni culturali: teatri, scuole, auditorium.

Bondi ha proposto che una parte delle risorse del contratto di servizio Rai vadano a finanziare la produzione delle opere cinematografiche. Come reputa tale proposta?
Nel momento in cui si studiano modalità diverse rispetto al Fus, che, non dimentichiamo, nasce 50 anni fa e quindi deve essere rivisto, le nuove proposte possono tutte essere esaminate con favore; che le risorse arrivino dal Lotto o dal contratto della Rai o da una quota che viene prelevata da altre parti, deve essere valutato nell’ambito del sistema. Alcune attività culturali, alcune opere prime, alcune attività cinematografiche, alcuni elementi dell’editoria devono comunque essere sostenuti da soldi pubblici perché fanno parte di una quota educativa della cittadinanza del nostro paese. Se il Fus si sta esaurendo ben vengano proposte alternative.

Si moltiplicano in questi mesi le proposte di cultura gratuita, leit motiv dell’era veltroniana. Ma la cultura gratuita può veramente aumentare la domanda culturale?
Il mercato della cultura è differente dal mercato dei beni o dei servizi commerciali: cambia il paradigma per cui il consumatore debba essere soddisfatto indipendentemente. Quando si parla di cultura, dobbiamo fare in modo che l’offerente si avvicini al fabbisogno della domanda. Tuttavia, c’è lo spazio dell’educazione alla domanda che rappresenta una sorta di effetto parabola: il fruitore non si rende conto della necessità che ha o che potrebbe avere e qualcuno deve educarlo, in particolare alla contemporaneità. Ciò significa che c’è una parte del mercato che non è richiedente di cultura e quindi deve essere trainata dall’offerta.
Una volta compreso questo passaggio, la parte che traina l’offerta può essere considerata gratuita, altrimenti la domanda manca.
L’Italia, ad esempio, è da sempre stata educata al melodramma: quando pensiamo alla musica di fine ‘900 e degli anni 2000 dobbiamo immaginare che non ci sarà una domanda pronta ad investire del denaro per comprare biglietti su questo genere. Per questo motivo, tale musica deve prima essere presentata dall’offerente e, in questa fase, il prezzo può essere calmierato, fino a diventare gratuito.