Musei 2.0? Yes absolutely, ma la tecnologia va usata in maniera intelligente, a servizio del pubblico, per creare quell’”engagement” che fa tanto bene ai musei per essere percepiti come luoghi non solo educativi, ma anche divertenti.
Se ne è parlato al convegno “Surfing and walking : i musei e le sfide del 2.0″, che si è tenuto lo scorso 2 ottobre al Lingotto di Torino in concomitanza con il salone DNA Italia, Tecniche, Cultura, Patrimonio da ieri a domani.
“Divertimento”  è stata la parola più inconsueta trapelatai durante l’intervento del Mibac rappresentato da  Christian Ghiron e Giuseppe Ariano i quali hanno affermato come “la cultura può essere divertente”. Dallo scorso novembre, il Mibac è presente sui due principali social network (fb e twitter) con l’80% degli utenti rappresentato da giovani tra i 17 e i 34 anni. Nel 2009 Google, d’accordo con il Mibac, rende fruibili, digitalizzandoli, a tutti i lettori del mondo circa un milione di volumi pubblicati prima del 1870 e quindi non soggetti a copyright. E in più, l’occhio di Street View entra negli scavi di Pompei e nel Colosseo.
Ma sarà l’intervento di Shelley Bernstein, Direttrice del Dipartimento di Tecnologia del Brooklyn Museum a offrire un caso eccellente di impiego della tecnologia in ambito museale.
La Bernstein spiega infatti come il Brooklyn Museum, uno dei più antichi musei statunitensi, qualche anno fa si sia posto una nuova mission: diventare a visitor friendly institution. Come fare? Partendo da elementi semplici e intuitivi:  etichette e pannelli informativi  più grandi (per permettere a tutti di leggere agilmente)  e l’abolizione del divieto di fare foto (anzi i visitatori possono postare le loro foto su flickr, nel canale dedicato al museo).
Grazie a Flickr, il pubblico posta le foto sui principali social network e le commenta, vota gli artisti più popolari e, di fatto, SCEGLIE i propri contenuti. E non solo. Dopo averli scelti, li CREA.
In una mostra fotografica sulle diverse razze e etnie, ad esempio, una postazione audio – video è stata collocata al centro di una sala del museo. Il tema si sa, può essere non facile e la postazione centrale non lascia privacy al pubblico. Nonostante ciò, un numero enorme di visitatori decide di registrare video personali rispondendo alla domanda: “What do you think about race?” I video finiscono su un canale dedicato di You Tube, innescando commenti e dibattiti.
E dalle foto si passa all’arte visiva: Mostra sui graffiti. Il Brooklyn Museum pone all’interno dello spazio espositivo un muro che lascia tutti i visitatori liberi di dare sfogo alla loro creatività e le cui foto sono postate su flickr dove il pubblico ama rivedere le proprie creazioni.
Dopo la Bernstein, l’intervento di Tamara Sztyma (Coordinatrice della Interwar Gallery per il “Museum of the History of Polish Jews”) sembra essere più tecnico (e meno comunicativo). In questo caso la tecnologia sta aiutando la realizzazione di un museo programmato per il 2012: il Museo della storia degli Ebrei Polacchi , che corre su due binari paralleli: da un lato l’edificazione della struttura ad opera di un architetto finlandese vincitore del concorso internazionale, dall’altro le persone comuni, che sono  invitate a creare il contenuto del museo articolato in 7 gallerie, caricando contenuti sull’olocausto (poi il team amministrativo decide la validità dei contenuti e decide sulla loro pubblicazione). La collaborazione si attua con studenti, comunità e gruppi di oltre 150 paesi.
Con Luca Melchionna, invece, Direttore della Comunicazione sui nuovi media del MART (Museo di arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto) torniamo in Italia, dove l’applicazione del GIVE UP CONTROL americano illustrato dalla Bernstein, risulta essere molto più difficile. Secondo Melchionna il web 2.0 rivela il suo bluff: riguarda il grande pubblico e la realtà, ma è descritto dai media italiani come “di nicchia” e virtuale. La strategia più efficace per permettere l’introduzione del web 2.0 nei musei italiani è convincere i vertici delle strutture che questo è lo strumento ideale per affrontare e risolvere una debolezza strutturale (complessità) o per convergere su un obiettivo condiviso.
Il MART, nato nel 2003, registra 250.000 visitatori all’anno organizzando in un anno 12 – 15 mostre. Ha raggiunto l’obiettivo di rendere accessibile la sua collezione permanente e sta lavorando sugli altri obiettivi precedentemente individuati e condivisi. Luca Melchionna ricorda che “far vedere che ci sono dei risultati, garantisce l’assegnazione risorse”.
Altra brillante testimonianza, sempre targata UK, ce la fornisce Jim Richardson, amministratore delegato della società di comunicazione SUMO. Nel 2007 SUMO è incaricata da 81 musei, gallerie e centri d’arte dell’area Nord Est dell’Inghilterra di ideare e gestire una campagna pubblicitaria collettiva che punta sulle ESPERIENZE più che sulle collezioni. Obiettivi target sono 3: famiglie, adulti interessati e i cosiddetti “lazy socials”, giovani adulti tra i 25 e i 34 anni che raramente visitano il museo.  Gli slogan utilizzati derivano da una serie di sessioni di brainstorming dove sono individuati nove “trail” ovvero percorsi di senso, per accorpare gli 81 soggetti promotori della campagna. I “trail” si traducono poi in 9 slogan, per mettere in evidenzia che il museo può essere anche il posto che non ti aspetti. “ I like… sparkly things” “I like… a place  to think”, “I like…being original”. Al centro della campagna il sito www.Ilikemuseums.com e una promozione battente locale e nazionale. Ogni museo ha la sua fan page e la campagna attira 40.000 visitatori, seguendo lo slogan “Whatever you like, museums have it”.
Infine il convegno approda laddove è ospitato. Alessandro Isaia e Carlotta Margarone illustrano reciprocamente il caso della Fondazione Torino Musei e di Palazzo Madama di Torino. In entrambi i casi l’attenzione verso l’utilizzo della tecnologia deriva da una novità: l’apertura del museo MAO (Museo di arte orientale) per la Fondazione Torino Musei, e la riapertura nel 2006 dopo quasi 20 anni di lavori di un museo storico per la città di Torino, quale Palazzo Madama. Quest’ultimo, impegnato nella sua trasformazione con cambio di logo e creazione di un proprio sito web (prima la pagina di Palazzo Madama era ospitata nel portale del Comune di Torino), nuovi progetti educativi, concorsi fotografici, e perfino un progetto per la creazione di un blog appositamente dedicato all’argomento. E poi, immancabili, i social network. Prima flickr e poi Facebook. Ma senza correre, prendendosi tutto il tempo di studiare  lo strumento tecnologico ed individuare il miglior momento per proporlo al pubblico. Il termine usato, non a caso, è proprio “sbarco”.
Tra sbarchi, navigazioni e approdi, il naufragar m’è dolce in questi musei 2.0…