La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 9 della Costituzione italiana

È necessario e vitale sostenere la cultura”. È l’esortazione del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Necessario e vitale perché l’arte e la cultura hanno sviluppato, fin dai tempi del Grand Tour, il turismo in Italia. Grazie alla ricchezza di siti culturali, distribuiti su tutto il territorio nazionale, si sono attivati enormi flussi di visitatori con un vantaggio per l’economia locale e nazionale, conferendo alla nostra Nazione una connotazione unica al mondo che ci ha fatto considerare per il BelPaese.
Recentemente, il direttore d’orchestra Daniel Barenboim, alla prima della Scala, ha affermato “platealmente”:  “Non si può pensare di risolvere i problemi sociali tagliando la cultura. Secondo qualcuno con la cultura non si mangia. Ma anche mangiare troppe altre cose può far male. Tagliando la cultura si taglia l’anima italiana”.
Anche Umberto Veronesi, nella stessa occasione, rincara la dose: “Un popolo non può progredire senza cultura”.
Se fino a diversi anni fa, l’Italia occupava una posizione leader assoluta nel turismo culturale, negli ultimi tempi si stanno perdendo notevoli posizioni e anche punti PIL in maniera precipitosa e preoccupante. La competitività sul mercato di destinazioni più originali con un marketing territoriale moderno ed efficace, ha evidenziato una rilevante mancanza di managerialità nella gestione dei territori, malgrado le universali ricchezze del Bel Paese .
Ne consegue che l’immagine della Destinazione Italia, anche dal punto di vista del target cultura, necessita certamente di un concreto e nuovo “Rinascimento”.
Il 1° dicembre si è svolto a Milano il Summit Arte e Cultura che, organizzato da Civita e Sole24ore, partiva da precise riflessioni: l’arte e la cultura rappresentano per il Made in Italy dei veri e propri asset competitivi e distintivi. Ma per quanto concerne l’indotto economico e di crescita quale potenziale assume il patrimonio culturale italiano? E poi, guardando alle manovre finanziarie ed ai relativi tagli imposti che si riversano sul futuro del settore, la domanda è : vi sono piani strategici a lungo termine e strumenti alternativi ai finanziamenti dello Stato per la valorizzazione dei beni culturali? E, in ultima istanza: le imprese italiane come si orientano effettivamente sul fronte cultura e cosa frena gli investimenti? Quali invece sarebbero le condizioni capaci di provocarne l’aumento?
Grazie ad una ricerca condotta dall’Associazione Civita, The Round Table, Astare, con Unicab, si è cercato di dare una risposta all’ultimo articolato quesito fornendo, sempre in occasione del Summit, aziende e ai professionisti del settore un’occasione di confronto sui temi attuali e le problematiche recenti che riguardano il fund raising, nel legame tra cultura e impresa, la capacità di misurazione dell’indotto culturale, le politiche territoriali nella logica di sistema per una gestione integrata di governo dei beni culturali.
Fondamentale l’aiuto strategico delle aziende private e pubbliche, per contribuire a salvare quella vitalità e creatività della cultura italiana che la scarsità di risorse mette a rischio. Anche perché in materia di cultura non si parla mai di spese ma di investimenti. I tempi, quindi, sono cambiati e seppure alcuni ritengono che i “privati” non debbono sostituirsi alle politiche dello Stato a sostegno delle istituzioni culturali, è bene che vengano aperti nuovi orizzonti. E’ ormai scontato e chiaro che il partenariato tra pubblico e privato è una strategia importante ed efficace laddove venga a crearsi un sistema di investimenti mirati e funzionali attraverso una condivisione di obiettivi a lungo termine, che diano atto a possibili best practices partecipate tra amministrazioni e aziende private in una virtuosa e operativa gestione delle risorse.
Bisogna, a questo punto, chiedersi come può l’arte (in senso lato) divenire una convincente risorsa economica anche per le aziende private. Sicuramente tutto ciò è possibile attraverso il coinvolgimento delle imprese nella gestione dei progetti culturali, abbandonando una logica di fund raising a favore di una logica di project financing.
”Lo Stato non può essere il titolare di un’impresa culturale, è  il sistema delle imprese che deve progettare, proporre e sviluppare il bene culturale e metterlo a disposizione del Paese”. Questo afferma con autorevole e concreta modernità di visione, Luigi Abete che, nella sua veste di presidente di Civita, propone una sfida: fare in modo che ”un bene culturale sia affidato in concessione complessiva alle imprese”, anche perché, aggiunge, ”se è vero che i beni culturali sono il nostro petrolio, non possiamo accontentarci di un’impresa pubblica”.
La strategia vincente per dare una scossa e una svolta potrebbe dunque essere quella di permettere che il “nostro petrolio” venga gestito dalle imprese private, così come accade negli USA, attraverso “regole certe”, l’individuazione degli attori al fine creare un contesto funzionale e culturale capace di accettare questo nuovo processo che dovrà necessariamente, quanto alla gestione, abbandonare il superato “modello italiano”.
Un sistema così definito permetterebbe di avere ”risorse di capitale da investire su un bene culturale, regole ben equilibrate tra tutela e valorizzazione del bene e soprattutto la possibilità di mettere in rete un determinato progetto con altri progetti presenti sullo stesso territorio”. E la criticità da superare, a parere del presidente di Civita, è soprattutto culturale: ”Serve una cultura del Paese che accetti questo come un valore, non come un problema”.
L’appuntamento che si è svolto nella sede del ‘Sole 24 Ore’ ha fornito anche l’occasione per presentare i risultati della ricerca ”Il valore della cultura” incentrata sugli investimenti privati nel settore: circa il 48% delle imprese italiane (il 70% ubicate al Nord, il 30% tra Centro e Mezzogiorno) ha effettuato investimenti nel comparto cultura nell’ultimo triennio stanziando un finanziamento che si aggira in media tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro.
Si è detto che si tratta di una fotografia di ”una fase di passaggio nel rapporto tra cultura e imprese. Dal mecenatismo, si è passati alle sponsorizzazioni e ora siamo nella fase di passaggio tra sponsorizzazione e partnership”.
In Italia, al settore della cultura, viene erogato poco più dello 0,20% del Bilancio statale a fronte di uno stanziamento che di media, nei Paesi europei, è molto più alto e dove i beni culturali sono considerati valori intrinseci, sia dal punto di vista educativo sia dal punto di vista artistico e sociale. Lo Stato esercita la sua funzione di tutela del patrimonio culturale ed è sua prerogativa irrinunciabile il ruolo delle sovrintendenze che però necessitano di strategie moderne.
E’ davvero necessario un “ponte” tra passato e presente per poter programmare un’azione futura di management della cultura per una concreta economia della cultura. Tutto ciò se il “nuovo” mercato non resti solo formale e normativo e se l’adozione dei modelli di gestione imprenditoriale si configuri concretamente nelle strategie operative del settore peculiare dei beni culturali. A prescindere da questo e dalla natura delle scelte vi sono comunque alcuni rilevanti scenari: il bisogno di somme ingenti e la capacità di gestione efficace sia per la conservazione del patrimonio, sia per la sua fruibilità, il suo possibile sviluppo indotto e per il turismo.
In Italia vi è la presenza di 45 siti impreziositi dall’Unesco con il Valore di patrimonio universale dell’umanità, siti e città che devono poter essere fruibili da tutti (si pensi alle barriere architettoniche) e la cui tutela e valorizzazione dovrebbe essere compito delle istituzioni. Ma è chiaro che non si tratta solo di un problema relativo alle risorse. Si parla, infatti, di giacenze di cassa – circa 650 milioni di euro – che la dicono lunga su come il vero problema sia la mancanza di managerialità nella gestione dei fondi a disposizione. Il recente caso Pompei, con l’ennesimo crollo, rappresenta una scarsa presa di coscienza di un patrimonio culturale che il mondo intero ci invidia.
Ma Pompei non è il solo esempio negativo in Italia. Ci sono tante Pompei. E tanti crolli “anonimi” che potrebbero invece sollevare l’economia di un territorio.
A fronte di poco più dello 0,20% al patrimonio culturale che lo Stato stanzia, non va però dimenticato che l’industria culturale rappresenta il 2,3% del Pil italiano.
Di fondamentale rilevanza è la possibilità di azione da proporre all’impresa privata, dando la possibilità di un agire con tranquillità, anche attraverso una opportuna defiscalizzazione.
Per tale motivo vi è stata una forte richiesta per la creazione di una norma fiscale di vantaggio per gli imprenditori con lo scopo di incentivarli a spendere fondi per la cultura anche se, per ottimizzare la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e dei patrimoni artistici, non bisogna avere solo dei vantaggi fiscali, ma anche cambiare l’impostazione mentale, essere flessibili al cambiamento di prospettiva logica.
Colpisce di questi tempi la dichiarazione dell’imprenditore Della Valle di salvare il Colosseo. Ma perché dobbiamo salvare e non curare? Perché non riusciamo a capire che la Cultura può davvero salvare il Paese per il suo Valore?
Attualmente si assiste ad una politica frammentaria e scoordinata per la valorizzazione dei beni culturali in cui le regioni perseguono un modello e gli enti locali un altro cosicché, beni di grandissimo valore e pregio culturale non ottengono gli adeguati fondi utili per la loro conservazione e promozione alla fruibilità e, inoltre, le risorse potenzialmente disponibili allo scopo, non sono efficacemente investite per pervenire agli obiettivi del sistema.
Vorrebbe dire investire in capacità di conoscenza con valenza produttiva; valenza e valore che non seguono però i tempi di maturazione di reddito immediato come può accadere per un normale prodotto di mercato.
Ecco, a conclusione, e nonostante tutto, bisogna essere orgogliosi di appartenere al BelPaese, perché nel mondo abbiamo visto delle cose, gestite sì in maniera migliore, ma decisamente meno belle…

Da tutti i viaggi che ho fatto tornavo con la consapevolezza che il nostro era il paese più bello e simpatico possibile. Ma a parte questo motivo affettivo credo assolutamente che non si debba andare via perché è necessario difenderla, questa Italia.
(Paolo Conte)

L’articolo è stato redatto in collaborazione con Marianna Scibetta