Stretta tra due fiumi, il Sava e il Danubio, l’identità della città di Belgrado è fatta di scritture e riscritture sematiche date dalle varie popolazioni che l’hanno abitata, vissuta, costruita, distrutta e ricostruita seguendo iter storici ciclici.
E così dalla latina Singidinum, passando attraverso l’invasione dei popoli slavi, e l’ incoronazione per la prima volta come capitale del Regno di Serbia, si arriva alla conquista degli Ottomani nel 1521. Si torna poi in Europa con la dominazione austriaca e nel 1841 Belgrado è nuovamente capitale, stavolta del Principato di Serbia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale è la volta del socialismo di Tito e, dagli anni ’80 in poi, del regime di  Miloševi? . Attualmente Belgrado cerca di aprirsi all’Occidente e al capitalismo, con risvolti positivi e negativi, tra cui l’inseguimento di canoni estetici postmodernisti, l’apertura ai colossi commerciali e l’abusivismo edilizio.
Volendo raffigurare questo iter dal punto di vista architettonico e urbanistico, dovremmo disegnare un accampamento  romano, poi la sua distruzione ad opera degli Unni, Avari e Slavi, le moschee ottomane e il quartiere Dor?ol con la sua struttura viaria tipica della città orientale, e il quartiere Zemun di impronta e aspetto austriaci,  così come gli edifici in stile austriaco mitteleuropeo e  i palazzi storici in stile classicista di una delle arterie principali della città, Kneza Mihailova. Con il socialismo invece tutte le abitazioni e gli edifici dovevano conformarsi a standard comuni e quindi ritroviamo un intero quartiere costruito ex novo (Novi Beograd), ma anche il palazzo dell’Usce dove il dittatore Miloševi? amava tenere i suoi discorsi, oggi principale centro commerciale della città.
In un interessante libro del ricercatore in Semiotica Francesco Mazzucchelli, la città di Belgrado viene analizzata, insieme ad un pugno di città dell’ex Jugoslavia, proprio da un punto di vista semiotico, partendo  dalla concezione di città come testo: “un luogo della memoria può essere visto come un testo che esterna lizza una determinata forma di temporalità, proiettando un passato ma anche un futuro, una futuribilità di tale passato”. Il concetto di Urbicidio, titolo del saggio, è stato “utilizzato da Bogdan Bogdanovi? (architetto ed ex sindaco di Belgrado negli anni ’80, nonché forte oppositore della politica nazionalista di Miloševi?) per indicare come ” la città (….) diventa un obiettivo non solo strategico ma soprattutto semiotico e spesso anche mediatico: sono i valori identitari, sociali e culturali rappresentati dai centri urbani a costituire l’obiettivo strategico delle azioni belliche, a volte ancor più degli effettivi obiettivi strategici”.
La tesi di Mazzucchelli è che la ricostruzione o la non ricostruzione sono legate, oltre che a ovvi motivi burocratici e politici (le richieste di pagamento inevase alla NATO colpevole dei bombardamenti, la lunga e burocratica vendita degli immobili, la riconversione d’uso, ecc..), anche a processi di sedimentazione delle diverse identità di quei luoghi, il cui stato rimane e deve rimanere a testimonianza di quanto è avvenuto. Così per citare un esempio, la RTS, televisione di stato che fu bombardata nella notte del 23 aprile 1999  in cui persero la vita 16 persone,  è stata oggi completamente ricostruita, mentre i palazzi che componevano il Generalstab di Miloševi?, sede del Ministero della Difesa e dell’esercito federale, rimangono al centro della città, nell’arteria di Kneza Milosa che conduce dall’aeroporto al centro città, distrutti e decadenti, piani di macerie su piani di macerie, sottoposto a controllo da parte delle autorità e sui quali vige il divieto di fotografia.
E l’arte e la cultura, come si sono mosse in questo labirinto di contraddittorietà, sovrapposizioni e soprattutto in uno scenario non florido dal punto di vista economico? Numerosi sono i centri culturali nati sui resti di edifici di archeologia industriale e riconvertiti a nuova vita. Ne sono un esempio il GRAD (European Center for Culture and Debate GRAD / Cultural Front) in Bra?e Krsmanovi? 4,  il REX Kulturni Centar in Jevrejska 16. Mentre lo SKC Studentski Kulturni Centar, storico polo culturale della città, resta nella sua centrale sede di Kralja Milana 48, anche in seguito ai recenti lavori di ristrutturazione. Un gruppo di artisti  provenienti dall’Accademia si sono stretti intorno alla galleria MAGACIN che, rivitalizzata grazie al loro intervento, dal 2007 ha svolto un ruolo di primo piano nella rinascita culturale e artistica della città. Una città che, come ci racconta Uros Radenkovic, direttore della programmazione musicale del GRAD negli anni ‘90 era in preda ad una subcultura underground, che lottava contro il potere ma usava anche forza e violenza per imporre le proprie ideologie. Allora, riferisce Uros, era normale girare armati e farsi giustizia da soli. Oggi è come se tutto fosse diventano più mainstream, e i toni si sono molto distesi.
La città sembra non voler pensare e soprattutto parlare delle epoche buie, dei bombardamenti, della guerra.
Le domande sulla guerra non trovano risposta, si cambia argomento, si gira la faccia. E quando qualcuno finalmente risponde si sente dire che “la guerra è stata vissuta più e più volte, il territorio è scosso da ondate di guerre in maniera ciclica, ognuno conosce la guerra e ognuno vi ha perso amici e parenti”, ma i loro occhi accesi e il loro tono di voce alzato sembrano invece voler dire “perché bisogna parlarne?”  Forse noi europei, che a mala pena ricordiamo le tremende conseguenze della Seconda Guerra Mondiale, vogliamo chiedere, parlare, investigare, mentre le ferite dei serbi bruciano ancora dopo più di 10 anni dall’ultimo bombardamento NATO. E forse ci vuole rispetto per il loro silenzio.
La città ha voglia di reagire, e la cultura e l’arte spingono per emergere e venire fuori con la loro carica positiva. “Il GRAD era un ex stabilimento tessile e il suo recupero e la sua odierna attività è stato solo il primo passo verso la riqualificazione dell’intera zona intorno al ponte Branko” ci dice Uros. La mission del  VEGA YOUTH CENTRE è invece aumentare la consapevolezza dei giovani di Belgrado, le loro prospettive e possibilità, e si dirige a tutti quei ragazzi che hanno sempre e solo vissuto gli stereotipi negativi della guerra e i conseguenti  pregiudizi verso l’Europa e l’europeizzazione. Un manipolo di antropologi, fondatori del VEGA, cerca di dimostrare che la cultura va oltre le barriere etniche e linguistiche e utilizza come mezzi il video activism e la video advocacy. Come Manja, 31 anni, alle spalle una carriera di violinista a Londra e un futuro ancor più roseo davanti, quando decide di tornare in Serbia, a Belgrado, e fondare insieme ad alcuni amici Radio Novi Beograd, una radio indipendente (le pubblicità sono completamente bandite) che dà voce alla parte della città più connessa con il tessuto urbano, giovanile e underground.  Oggi, anche senza finanziamenti visto che il mecenate che ha permesso l’acquisto delle attrezzature dopo un anno ha ammesso di non poter più sostenere le attività, va coraggiosamente avanti con bandi europei e tanti volontari.
Sono le persone nominate qui e tutte quelle a cui è difficile dare un volto in questo articolo, ma che come loro credono nel potere della cultura come mezzo per potenziare giovani e popolazioni, che stanno “spingendo sull’acceleratore”, favorendo la ripresa culturale ma anche sociale della città. Avanti tutta Belgrado!