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Intervista ad Umberto Croppi – ex assessore alla cultura del Comune di Roma e direttore generale della Fondazione Valore Italia
Tre anni da assessore alla cultura di Roma, allontanato poi dalla Giunta comunale per questioni di partitocrazia e non di merito. Al suo posto, la carica di assessore alla cultura di Roma, con delega al centro storico, è stata assegnata a Dino Gasperini. Quali pensa possano essere i margini di manovra che avrà il suo collega all’interno della Giunta Alemanno bis?
Si annuncia un anno particolarmente difficile dal punto di vista finanziario per il Comune di Roma, con una conseguente limitazione delle manovre dovuta proprio alla diminuzione delle risorse. A questa va ricollegate anche l’attivazione, durante il mio mandato, di una serie di iniziative volte alla ricerca di finanziatori privati interessati a diventare partner delle iniziative comunali con il quale si erano attivati una serie di strumenti, come la fondazione Macro ad esempio, che servivano proprio all’elaborazioni di strategie comuni con investimenti pubblico-privati
Non è facile, per chi riprende il discorso da capo, ricominciare dallo stesso livello di avanzamento dei lavori, anche perché molti di quei programmi si basavano su rapporti fiduciari maturati con il tempo grazie ad altri progetti avviati.
Vede, io ho impiegato gran parte del mio tempo a costruire una rete di consultazione, intesa e collaborazione con molti degli operatori della scena culturale romana perché credo che questo aiuti nel decidere l’ordine delle priorità e a trovare soluzioni condivise. Non dubito affatto delle capacità del mio collega Gasperini di trovare delle reti altrettanto, e forse ancor più fruttuose, ma ci vuole tempo, indubbiamente, e le difficoltà spuntano sempre, indipendentemente dalle proprie competenze.
Quali potrebbero essere le tre parole chiave distintive del suo concluso mandato politico?
La prima potrebbe essere “tenacia”: sono riuscito infatti, nonostante le gravi difficoltà economiche del Comune di Roma, addirittura a far crescere le quote di investimento nella parte corrente del bilancio della cultura.
La seconda è “consenso”, perché è grazie ad esso se sono riuscito poi a realizzare i miei progetti; mentre la terza, anch’essa collegata alle prime due, è “indipendenza”, una garanzia che mi ha permesso di sviluppare il consenso a discapito delle logiche di parte. Questi tre elementi hanno costituito per me il presupposto iniziale per la realizzazione di progetti ambiziosi.
L’assessorato della cultura a Roma viene spesso unito a quello dell’Innovazione e, in altre città, a quello del Turismo. Pensa che l’accorpamento di queste deleghe benefici le attività da svolgere?
Durante l’assessorato io avevo la doppia delega alla cultura e alla comunicazione. A Roma, infatti, il dipartimento della Comunicazione ha al suo interno quello dell’Innovazione e della Semplificazione: un’unificazione coerente, a mio avviso, in q uanto le logiche di comunicazione della pubblica amministrazione sono strettamente legate alla cultura che è un fattore effimero e quindi molto omogeneo con le attività culturali in senso lato. Il turismo può essere affidato ad una delega diversa, a patto però che vi sia una quotidiana collaborazione tra i due assessorati, soprattutto a Roma dove l’offerta turistica è tout court un’offerta culturale. Nella Capitale però questa collaborazione, almeno secondo la mia esperienza personale, non esiste: la delega al turismo, esercitata dal mio collega Mauro Cutrufo, si è mossa in maniera piuttosto indipendente da quella alla cultura. La responsabilità non sta ovviamente nell’azione di Cutrufo o nella mia, ma semplicemente nella strutturazione, forse non pienamente integrata e sincronica, delle attività delle due aree. Io mi sono mosso per dare a Roma un carattere di contemporaneità, per rivisitare il patrimonio storico alla luce di una fruizione aggiornata, legandola ad una capacità di produzione di cultura, cambiando quindi anche il modello di offerta culturale rivolto non più ad un turismo mordi e fuggi rappresentato da coloro che visitano solamente le icone della città, ma di turisti più attenti che fruiscono la città anche attraverso la cultura con concerti, eventi, mostre.
Chi si occupa di turismo dovrebbe secondo me promuovere questa offerta che invece, almeno nel mio caso, non è stata valorizzata ma anzi ostacolata, favorendo e immaginando un’offerta alternativa a quella che si stava creando con la cultura. Si è dato grande spazio (lo abbiamo visto anche negli ultimi Stati Generali della Città di Roma) ad un secondo polo turistico, di fatto ancora inesistente, che rappresenterebbe una via parallela rispetto a quella percorsa dalle politiche culturali da me portate avanti. Non quindi metter a valore ciò che è già stato fatto, ma semplicemente proporre alternative.
Con delle incursioni poi, proprio nel campo stretto delle politiche culturali, quali interventi sulla città con l’utilizzo di risorse per organizzare dei piccoli spettacolini serali nelle piazze romane che non riguardano la promozione bensì la produzione culturale. Per tornare alla domanda direi quindi che le deleghe possono sì essere diverse ma in grado di lavorare sinergicamente su scelte condivise dall’amministrazione. Allo stato attuale abbiamo invece una parcellizzazione delle competenze per cui alla fine ogni dipartimento vive di vita propria, senza punti di contatto fruttiferi.
E’ stato approvato alla Camera e al Senato il federalismo fiscale, per molti versi ritenuto uno strumento utile alla responsabilizzazione dei vari enti locali. Crede che Roma possa adattarsi a questo nuovo modello finanziario senza essere risucchiata dall’enorme debito accumulato (stime ufficiose parlano di circa 12 miliardi di euro)?
I segnali purtroppo vanno tutti in direzione opposta. L’Italia parte da un livello di investimento pubblico, dello Stato e degli enti locali, radicalmente più basso rispetto agli altri Paesi europei destinando circa 1 punto percentuale del Pil agli investimenti in cultura, rispetto ad una media europea che si attesta attorno al 3-4%
I Comuni, dal loro canto, dedicano dal 2 al 4,5% del loro bilancio alla cultura contro l’8% dei rispettivi europei. L’intera cifra della spesa corrente annuale del Comune di Roma, ad esempio, è di circa 110 milioni, considerando in questo valore anche le somme stanziate per la manutenzione e la valorizzazione; che è esattamente la cifra che Parigi stanzia per il solo museo del Louvre. I tagli operati nella finanziaria, quindi, incidono su degli standard che sono già al di sotto delle esigenze in un paese in cui la cultura rappresenta il volano più importante per lo sviluppo. La legge n.122 del 30 luglio 2010, la cosiddetta manovra finanziaria, ha al suo interno delle norme che non solo non producono risparmio, ma addirittura limitano le capacità di spesa. Il famoso blocco del 20% di spesa per mostre e pubblicità rispetto ai bilanci del 2009, i limiti di partecipazione dei privati con il un massimo di 5 membri nei Consigli di Amministrazione delle società pubbliche, sono dei cavilli che non portano a dei benefici.
Macro analisi dimostrano che le iniziative culturali fanno tornare nelle casse dello Stato, tramite la leva fiscale, molto di più di quanto investito. Il problema, quindi, non è la crisi economica ma la gestione delle risorse.
La Grecia, che si è trovata in una crisi profonda, ha utilizzato i fondi provenienti dall’Unione Europea per riattivare quei settori fondamentali nel paese in grado di fornire ricavi a breve termine, cioè turismo, cultura e beni culturali. Roma, con la sua industria cinematografica e audiovisiva dà lavoro ad oltre 250 mila persone, testimonianza di come la struttura produttiva della città si fondi sulla cultura in tutte le sue sfaccettature.
La Finanziaria del ministro Tremonti, certo, non dà molto ossigeno alla cultura: una finanziaria contro la quale si è battuto più volte, nonostante la sua appartenenza politica, minacciando una chiusura dei musei che poi si è veramente realizzata. Ma se lo Stato non destina fondi alla cultura, i privati possono essere l’unica via di uscita?
Come dicevamo, gli investimenti pubblici per la cultura sono minimi e si fa un gran parlare dell’esigenza di intervento dei privati. Per incentivare i privati è però necessario che il pubblico per primo aumenti i propri investimenti.
Mi spiego meglio: i privati non sono sostitutivi dello Stato ma complementari ad esso. Lo Stato non può e non deve ritrarsi davanti agli investimenti ma dimostrare la volontà di credere nei suoi progetti. Quando 2 anni fa, in Francia, Mitterand decise di dare una spinta all’investimento dei privati, per incoraggiarli portò lo stanziamento pubblico annuo dei fondi per la cultura da 110 a 140 milioni. Non si può immaginare le aziende private come un bancomat per prelevare i soldi di cui si ha bisogno: si devono costruire delle partnership che abbiamo un senso e soprattutto una ricaduta che sia vantaggiosa anche per le aziende stesse. In questo ambito ero riuscito a trovare delle collaborazioni importanti da parte di società o fondazioni costruendo fin dall’inizio dei progetti che fossero coerenti con le loro mission aziendali, trovando grandi disponibilità.
Per il Colosseo, ad esempio, si è voluto identificare l’affare come una grande fortuna per il Colosseo di aver trovato un mecenate come Della Valle per i lavori di restauro. Quello che non è ben chiaro è che Della Valle non ha stanziato i 25 milioni di euro ma che li cercherà attraverso l’immagine del Colosseo.
C’è chi la vede ora Sindaco di Roma, ora alleato della provincia di Zingaretti con il Pd, ora Ministro per i Beni e le Attività Culturali: indubbio il fatto che ora il suo nome è contornato da una serie di consensi bipartisan. Come pensa di poterli “spendere”?
Io sono gratificato dagli attestati che ho ricevuto e che continuo a ricevere, ma sono sinceramente convinto che questo atteggiamento mi sia derivato dal fatto non di avere delle doti eccezionali, ma solo per aver onorato l’incarico assegnatomi con responsabilità e buon senso. La cosa che fa riflettere è che questa in Italia venga considerata una cosa straordinaria.
In questo senso io mi ritengo a disposizione per assumere incarichi nell’ambito della politica italiana che siano alla mia portata e che prevedano la riconquista di spazi usurpati da una classe dirigente che non è più in grado di rappresentare le forze produttive.
Dopo il ritiro del progetto del Gran Premio all’Eur, la nuvola di Fuksas, l’Acquario, e ora anche una campagna firme per la riapertura dello storico Luna Park, molto si sta puntando sul quartiere Eur, che era anche uno dei suoi obiettivi per la creazione di un nuovo polo culturale della Capitale…
Sull’Eur si sommano due diverse esperienze: la mia attività professionale, che ho mantenuto anche durante l’incarico, è quella di direttore generale della Fondazione Valore Italia, una fondazione del Ministero per lo Sviluppo Economico nata con la mission di realizzare nel Palazzo della Civiltà dell’Eur l’Esposizione permanente del Made in Italy e design italiano. È un progetto su cui lavoriamo da anni e su cui abbiamo già risorse stanziate, aspettiamo solo che ci venga consegnato l’edificio. Il cosiddetto Colosseo Quadrato è il simbolo dell’Eur e uno dei simboli della Roma contemporanea: questa iniziativa ambiziosa potrebbe contribuire a realizzare, insieme alla nuvola di Fuksas, un polo attrattivo importante per la città e tutto il quartiere ne beneficerà.
Per il resto, all’Eur ci sarebbe bisogno di un intervento strutturale ampio: non solo l’Acquario, che ormai è in via di ultimazione, ma anche la definizione di una nuova collocazione o una riqualificazione del Luna Park che rappresenta una grave problematica cui è difficile rimediare nel breve termine. Tutti questi progetti, che rientravano nel fallimentare programma della Formula Uno dovrebbero però rimanere in piedi, a prescindere dal Gran Premio.
Molti sono i Piani Strategici cittadini che interessano la Capitale: si va da quello di Via Guido Reni intorno all’Auditorium e al Maxxi a quello dell’Ostiense con i mercati generali di Koolas. Potranno queste operazioni, assieme a quella dell’Eur, farci presupporre che nel 2020 Roma avrà veramente tre grandi zone riqualificate con una conseguente rigenerazione urbana complessa?
Per quanto riguarda i Mercati Generali sulla Via Ostiense, il piano è partito: si tratta di un piano privato, con dei legittimi interessi privati, quindi, nell’aumento e utilizzazione della cubatura edilizia che prevede inoltre al suo interno delle destinazioni a carattere culturale e sociale. Sarà importante nei prossimi mesi definire precisamente queste destinazioni d’uso culturali e sociali perché possano davvero rappresentare un intervento che completa lo sviluppo di una zona che è tra le più interessanti di Roma ma ancora avvertita come periferica.
Per quanto riguarda Via Guido Reni, invece, la cosa è più complessa e anche più interessante.
Negli ultimi mesi avevo lavorato molto insieme al Sindaco e agli altri uffici competenti affinché non venissero prese decisioni sbagliate, capaci di compromettere le potenzialità elevate dell’area.
A mio avviso, l’ho detto varie volte, Via Guido Reni sarebbe dovuta diventare il boulevard di Roma, l’asse di collegamento tra l’Auditorium Parco della Musica, il Maxxi e il Ponte della musica con la zona del Foro Italico, accorpando al progetto anche il recupero delle ex-caserme della zona che verranno trasferite al Comune. Avevo immaginato, a fronte strada, dei negozi di design, gallerie d’arte, caffetterie, librerie, botteghe creative, residenze d’artista, laboratori. Ora sento dire che si sta pensando all’ipotesi di farvi sorgere un nuovo Teatro dell’Opera, una sala per la musica o addirittura degli spazi dedicati all’artigianato, idea secondo me alquanto ridondante dato che l’auditorium, praticamente a due passi, è nato con lo stesso scopo; il Teatro dell’Opera, poi, esiste già, va riqualificato, ma è antico e bellissimo e non possiamo pensare ad un suo concorrente. Siamo dunque su un crinale: le decisioni che verranno prese nei prossimi due anni cambieranno il volto della città, la sua fruizione e la sua percezione e il rischio di compromettere queste potenzialità è altissimo. Non dimentichiamo poi, che in città esistono tanti altri fermenti: c’è in corso un’azione spontanea di riconversione degli spazi a San Lorenzo, al Pigneto, Pietralata, al Corviale. Queste azioni andrebbero inserite in un quadro complessivo, non limitandosi a citare sempre gli episodi più clamorosi.
Politiche ingessate e lobby di potere che contribuiscono al ristagno dell’economia, questo lo scenario che molti dipingono intorno a noi. Quanto ha incontrato tutto questo durante il suo mandato a Roma?
Che l’Italia sia un paese ormai ingessato è fuori discussione: basta mettere un piede fuori confine per recarsi in paesi giovani ed emergenti come la Cina o l’India per vedere come, nell’ambito dello sviluppo, noi siamo ormai un fanalino di coda in tanti ambiti. Sulla mia azione dico invece di non aver riscontrato troppe difficoltà: mi sono veramente mosso “nelle pieghe”, senza trovare elementi di freno o conflitto. La classe politica quasi non si è accorta di quello che facevo e questo, per alcuni versi, è stato un bene.
Non avendo né risorse né strutture, sono riuscito a riattivare, seppure marginalmente, dei meccanismi che hanno fatto tornare Roma sulle testate nazionali e internazionali riaccendendo i riflettori sulla nostra bellissima città. È un po’ buffo che parli di tutto questo usando la prima persona perché tante sono state le persone intorno che mi hanno aiutato e sostenuto e senza le quali molte cose non si sarebbero potute realizzare. Certo, però, che gran parte delle cose sono pervenute anche da un mio stimolo personale.