“La cultura non si mangia” è la dichiarazione attribuita nell’autunno passato al Ministro Tremonti. La veridicità di tale attribuzione non è però il fatto essenziale.
Il punto su cui riflettere è che molta parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente si è ritrovata nel senso di tale affermazione. Se è vero che la “cultura è cibo per l’anima” è altrettanto vero che, a parità di budget disponibile, è necessario, più pragmaticamente, nutrire prima il corpo.
Partendo da questo assunto di immediata evidenza, è plausibile ritenere che la crisi economica in atto e l’aggravio dell’inflazione portato dagli eventi nord-africani avranno, sicuramente, un effetto negativo sull’economia della cultura, portando molte persone a rinunciare a calarsi nella veste di consumatori di questo particolare settore.
Il comportamento si orienterà prevedibilmente in tale direzione anche perchè molti degli “svaghi” culturali sono riproducibili, più o meno legalmente, attraverso canali di larga diffusione e per di più gratuiti. Ne sono un esempio i film guardabili in streaming, i torrent scaricabili on-line di musica e cinema fino alla possibilità di visite virtuali nei musei. Non è evidentemente lo stesso visitare un museo (o una città d’arte) attraverso il proprio pc rispetto a recarsi sul posto, ma è immensamente più economico.
Proprio in virtù di tale riflessione, l’obiettivo di chi si occupa di economia della cultura dovrebbe essere di proporre una fruizione dell’oggetto culturale tale da essere “non riproducibile” in modo alternativo, proponendo una vera e propria esperienza di vita e non solo un contatto ravvicinato con l’oggetto o il fenomeno in questione.
La visita ad un luogo deve diventare un’esperienza unica di crescita, un momento di passaggio e la base di un ricordo indelebile per la persona che la vive e non solo l’occasione di una foto in più da pubblicare su facebook al ritorno.
Se, da un lato, deve cambiare, quindi, il modo di proporre la cultura ai “consumatori”, dall’altro è necessario anche operare in modo tale da cambiare la percezione generale  del settore, per portare anche il singolo a non interpretarla più come un lusso, ma come un bene davvero necessario per nutrire la propria anima.
La mano pubblica dovrebbe quindi operare in due direzioni.
La prima è dar vita a tale cambiamento, che si può ingenerare solo fornendo gli strumenti culturali necessari alle persone. Ed è sicuramente un’ottica di più lungo periodo.
La seconda è di ragionare per obiettivi “elevati” da raggiungere con mezzi pragmatici. Ciò non vuol dire solo “investire” nella cultura o evitare gli sprechi (obiettivi che sono, in ogni caso, prioritari e profondamente auspicabili) ma anche comprendere che la cultura è un business conveniente nel quale investire.
A tal proposito non si può non citare la lettera/articolo di Umberto Eco (pubblicata a fine gennaio su Repubblica) in cui l’autore fa notare come molti altri paesi, attraverso una gestione accurata delle proprie risorse, riescano a “mangiare” attraverso la cultura e che quindi è in Italia che “c´è qualcosa che non funziona”, mentre “in termini monetari e di influenza politica” potrebbe portare gran giovamento al Paese operare meglio in tale settore, perchè la cosa certa è che di sicuro non è salutare “l’anoressia culturale”.
Seguendo la logica pragmatica tracciata da Eco è ragionevole pensare che una strategia più accurata di gestione della cultura, estendendo il target dei consumatori, riuscirebbe anche ad abbattere i costi individuali da proporre ai possibili fruitori del settore.
Prezzi più bassi dei biglietti per il cinema, per l’accesso ai musei e al mondo culturale in genere ridurrebbero sicuramente l’incidenza di queste voci sul budget dei consumatori, diminuendo quindi la propensione degli stessi a tagliare tali costi, soprattutto nel momento in cui il corrispettivo per queste spese fosse davvero “un’esperienza” e non più solo “un prodotto”.