In pochi giorni Bologna è stata il palcoscenico sul quale si sono alternati due avvenimenti analoghi per campo di afferenza, ma al tempo stesso contrari per gli esiti a cui abbiamo assistito da spettatori.
Proprio la sera che anticipava il debutto di uno spettacolo, interpretato dai detenuti della Casa circondariale di Bologna, per la prima volta previsto in un importante spazio teatrale cittadino, l’Arena del Sole – verrebbe da dire con un inaspettato quanto improvvido coup de théâtre! – un detenuto è evaso, lasciando tutti basiti. E non si trattava nemmeno di una comparsa, ma del protagonista dello spettacolo che doveva andare in scena l’indomani. Secondo copione, invece, non si sono fatte attendere le dichiarazioni delle autorità penitenziarie in favore di misure d’ora in avanti più restrittive.
Solo qualche giorno prima, la Regione Emilia-Romagna aveva deciso di intensificare i progetti di teatro nelle carceri, con la sottoscrizione di un protocollo d’intesa valido fino al 2015, firmato congiuntamente al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e al Coordinamento Teatro Carcere.
Così da semplici spettatori, ci siamo ritrovati tutti amleticamente sulla scena a chiederci se fosse giusto o sbagliato proseguire e, nell’uno o nell’altro caso, perché?
Cosa si prova nel ricevere sulla propria pelle una sentenza definitiva di condanna? Cosa si prova nel vedere condannato in via definitiva chi abbia commesso un reato o un delitto ai danni di un proprio caro? Cosa si prova ad attendere per anni una sentenza che non arriva per tempi troppo lunghi, vizi di forma, prescrizioni o indulti?
Chi vi scrive non sa cosa provi un comune detenuto ogni giorno nelle nostre carceri, sovraffollate oltre il limite della dignità e di uno Stato civile, dove alto è il numero dei suicidi. Chi vi scrive non ha mai indossato neppure i panni di un agente di polizia penitenziaria, che a suo modo vive una reclusione in cambio di un misero stipendio e non sa nemmeno cosa significhi per un detenuto ottenere il primo permesso di lavoro ed uscire dal carcere dopo anni di dura detenzione, anche solo per poche ore.
Non so cosa possa significare per un detenuto l’incontro con il teatro come mezzo di introspezione, confronto, crescita, dialogo con l’esterno, in un contesto come il carcere che, se non nelle intenzioni, nei fatti è la negazione di tutto questo.
Però sappiamo che uno spazio fisico e mentale come il teatro, potremmo dire anche spirituale, accompagna da sempre l’umanità come specchio ora deformato ora realistico del singolo e della collettività. Il teatro può essere tanto più vero quanto più chi lo interpreta vive situazioni di emarginazione, reclusione, sofferenza. Il teatro a volte trova la sua missione proprio nel far emergere e mettere in condivisione i sentimenti più reconditi e profondi che appartengono all’umanità, che si ritrova attorno alla scena e poco importa se siamo dalla parte degli attori o da quella degli spettatori.
Il teatro, assolvendo da sempre una funzione civile e sociale ha però ottime aspettative di vita per i secoli a venire, al di là di un sistema in crisi e nonostante i tagli sconsiderati. L’umanità chiederà sempre alla scena una verità più grande, che da soli non abbiamo il coraggio di dirci né la forza di sopportare.
Per questo se la finalità di uno spettacolo è il fare teatro e per teatro intendiamo quello che abbiamo appena detto, non dunque la scorciatoia, il palliativo, il semplice passatempo, quello allora non potrà che essere grande teatro: assoluto, unico, irripetibile, al quale dobbiamo tutta la gratitudine di uomini, prima ancora che di cittadini. Per il resto non sappiamo cosa ci riserverà il prossimo atto della pièce bolognese, ma saremo pronti in ogni caso ad applaudire la sera della prima.