Intervista a Gian Antonio Stella, autore del libro “Vandali” e giornalista del Corriere della Sera.

“Vandali” è il nuovo libro suo e di Sergio Rizzo che passa in rassegna il degrado in cui versa il patrimonio artistico italiano. Da Nord a Sud, nessun territorio sembra escluso da un’incuria generalizzata di cui tutti siamo responsabili. Come siamo arrivati a questo punto e come procedere, nel nostro piccolo, per ripartire?
Io credo che ci sia stato un progressivo calo del senso della bellezza nel nostro Paese. I nostri nonni avevano un senso della bellezza, dell’armonia che oggi abbiamo completamente dimenticato.
Le nostre campagne, montagne, paesi, contrade, sono state armoniosi e veramente belli fino agli anni ’50-’60. Da quel momento in poi, lo testimoniano le dure denunce fatte da Antonio Cederna negli anni ’50, questo senso della bellezza è andato scemando, compromettendo di fatto il nostro patrimonio. Ristabilirlo è impresa difficile da compiere nel breve termine. Per questo, dato che il tempo stringe, dovremmo spostare la questione sul piano prettamente economico: se la nuova plebe, arricchita, televisiva, consumistica, che comunque plebe rimane, non capisce la bellezza, allora una più facile comprensione può essere incentivata se si pone la questione sul piano del denaro: non proteggere o tutelare le nostre ricchezze artistiche e culturali è un danno economico. Se qualcuno è troppo ignorante per capire Lorenzo Lotto piuttosto che il Palazzo Teti Manfrini a Santa Maria Capua Vetere, allora che cerchi almeno di capire che degradando il patrimonio butta via dei soldi.
Io e Sergio Rizzo stiamo provando a portare avanti questa riflessione, non solo con il libro ma anche con le presentazioni che portiamo in giro per l’Italia.

Lei e il suo collega Sergio Rizzo siete ormai specializzati in “libri denuncia”: ora lei è in procinto di chiudere altri due libri. Seguiranno sempre questo filone?
Io ho sempre fatto dei libri civili e civici e quindi ho sempre trattato tematiche sociali quali immigrazione, razzismo, volgarità dell’arricchimento rapido, rischi di uno sviluppo troppo impetuoso, lentezza di risposta dell’Italia a certi stimoli rispetto agli altri paesi europei.
Io continuerò su questo filone: poi se qualche libro ha più successo, come nel caso de La Deriva o de La Casta, si deve all’argomento unito ad un momento più favorevole per quella tematica. Che poi li faccia con Sergio o da solo non cambia nulla, ognuno ha una vita professionale separata che molte volte percorre però la stessa strada.

Dopo la recente visita di Galan a Pompei è stato redatto un piano di intervento di 104,8 milioni di euro con scadenza al dicembre 2015. Una prima fase prevede la verifica delle condizioni di conservazione che servirà a stabilire le priorità dell’intervento. Quali sono, a suo avviso, le azioni da intraprendere e per quale motivo la questione “Pompei” è di così difficile risoluzione e quanto contano in questo settore il clientelismo o le lobby?
Le lobby politiche, quelle sindacali, il clientelismo hanno un peso, politico ed economico, molto importante. Gestire Pompei è di certo un’impresa molto ardua e anche un emiliano di scorza dura come Giuseppe Gherpelli (direttore amministrativo della Soprintendenza Archeologica di Pompei dal 1998 al 2001, ndr) ha gettato la spugna, in quanto non adeguatamente supportato dalla direzione centrale di Roma. Se i partiti si preoccupano ancora dei voti che si possono perdere a Pompei, perché ogni custode ha una famiglia, ogni famiglia ha dei cugini e ogni cugino rappresenta una rete altrettanto vasta di conoscenze, non penso si sistemerà mai nulla.
Io credo comunque, a prescindere dai vari clientelismi, che la prima, fondamentale azione da compiere sia il ripristino di una squadra di artigiani specializzati in questo tipo di lavori, perché è inaccettabile che l’ultimo mosaicista sia andato in pensione 10 anni fa, nel 2001, ed è inaccettabile che ogni qualvolta ci sia qualcosa da fare si chiami qualcuno di esterno che poi, a conti fatti, non è comunque uno specialista ma magari uno che fino a ieri si era occupato solo di restaurare il bagno di una villa civile costruita l’anno scorso.
Questo lo si è visto con il restauro del teatro di Pompei: se l’azienda ingaggiata fosse stata minimamente esperta in lavori di questo genere avrebbe sicuramente fatto in modo che non si vedesse il cemento armato negli scalini: questa è una cosa che grida vendetta a Dio, che non sta né in cielo, né in Terra. E a raccontarla, se non mostri le foto, quasi non ti credono.

Nel libro si nomina anche il cambio repentino di rotta che Galan, governatore nel 2003 della regione Veneto, intraprese sulla necessità o meno di nuovi capannoni nelle aree verdi del vicentino. Cosa pensa riguardo la sua nuova investitura a Ministro per i Beni e le attività culturali?
Io auguro a tutti noi che Galan sia il più grande ministro per i beni e le attività culturali di tutti i tempi. Lo auguro a noi e lo auguro a lui.
Detto questo, devo dire che le modalità con cui è stato nominato sono indecenti: ancora una volta il Ministero per i Beni e le Attività Culturali viene dato come contentino in cambio della rinuncia a qualcosa considerato più importante. Ancora una volta, quindi, è stato trattato come Ministero di serie B: ce n’era uno di serie A (dal punto di vista clientelare) che era quello dell’Agricoltura e che l’attuale Governo ha deciso di assegnare a un padrone siciliano di tessere clientelari. Dovendo quindi sgombrare il Ministero dell’Agricoltura per poterlo gestire in maniera clientelare come descritto sopra, si è chiesto a Galan di spostarsi alla Cultura.
In Francia il MiBAC è un Ministero importantissimo mentre qui in Italia, in un Paese cioè dove lo stesso Presidente del Consiglio si riempie la bocca di inviti a scoprire patrimoni e meraviglie, il Ministero per i beni e le Attività Culturali è praticamente di secondo o terz’ordine. Prova provata che a questo governo, come a molti dei governi precedenti, della Cultura non interessa nulla.

Cosa ne pensa dei continui commissariamenti che interessano il nostro Paese e della continua situazione di emergenza che siamo costretti a vivere per i nostri beni culturali?
Io credo che i commissariamenti, e Pompei ne è un plastico esempio, siano come la cocaina: per il primo periodo ti eccita, ti tiene su, non hai bisogno neppure di dormire e tutto pare funzionare. In realtà se ne diventa presto schiavi e, nel momento in cui manca, si cala in una crisi profonda.
per questo motivo sono assolutamente contrario ai commissariamenti, perchè credo che siano stati creati per spianare la strada ad appalti e giochi di potere poco puliti, così come dimostrano le inchieste giudiziarie aperte da anni. È inaccettabile che un Paese come il nostro abbia distribuito in questi anni con i commissariamenti la bellezza di 13 miliardi di euro.

Crede che il Federalismo possa risolvere in parte queste problematiche?
Sul discorso del federalismo bisogna essere molto chiari: dopo il taglio dell’Ici gli stessi sindaci leghisti con un po’ di buon senso, hanno implorato i giornalisti di non lasciar passare l’idea di una eccessiva autonomia nella gestione dei comuni e del territorio. Dopo questo taglio, infatti, i Comuni per fare cassa non vedono altra scelta se non quella di concedere licenze per incassare oneri di urbanizzazione. In una situazione come quella attuale, i sindaci di certi comuni che non riescono neppure a pagare gli stipendi ai dipendenti non sono in grado di reggere forti pressioni: se il sindaco di un municipio in difficoltà riceve un progetto urbanistico di un privato che prospetta una cementificazione selvaggia ingentilita dall’offerta di costruire una palestra pubblica o piantare 100 pioppi lui, vista la situazione di crisi, non è in grado di opporsi più di tanto ….
Io credo che il federalismo sia indispensabile e così la responsabilizzazione degli enti locali ma il sindaco, solo per aver vinto le elezioni, non può essere il padrone assoluto del suo territorio e decidere quindi della sorte dei beni culturali che sorgono in quell’area: i beni culturali sono patrimonio dell’umanità, non dei sindaci e dei loro concittadini.

Il bene comune in Italia è considerato spesso come il ben proprio, dai Comuni, dalle Sovrintendenze, dai Ministeri. Libri come “Vandali” sono come degli ammortizzatori che scatenano l’opinione pubblica ma poi non riescono realmente a modificare il sistema. Per quanto tempo riusciremo a sopravvivere con questo spirito?
Io spero solo che l’Europa ci mandi presto un messaggio preciso, chiarendo una volta per tutte che Pompei non appartiene solo all’Italia ma a tutti: e dico Pompei cadendo nello stesso gioco perverso in cui cade anche il neo ministro Galan, secondo il quale risolto Pompei, risolto tutto. Sicuramente Pompei è gran parte di questo percorso, ma di certo non tutto.
Il rischio è che vadano a dare una sistematina a Pompei usandola poi come specchietto per le allodole. A niente servirebbe mettere a posto Pompei se poi si lasciassero marcire, ad esempio, gli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo.
L’unica svolta culturale vera, dunque, è quella di passare ad una gestione ordinaria e ad una sana manutenzione del territorio. Certo, ci vorranno degli investimenti forti, ma se le procedure vengono rispettate senza addurre crisi emergenziali per far raddoppiare gli appalti, i soldi si possono anche usare in maniera corretta.