Making better use of skills within organizations

Parlare di contesti di lavoro innovativi richiama istintivamente l’esempio degli uffici di Google, la cui mitologia si è ormai formata nell’immaginario di molti: nuovi modelli di distribuzione degli spazi e degli orari, aree di svago per i dipendenti e possibilità per gli stessi di dedicare una porzione del loro tempo a sviluppare progetti originali, anche se non direttamente collegati all’attività per la quale percepiscono un salario. Oppure al caso meno noto di Lago – giovane impresa di design – la prima in Italia a creare un corporate blog aperto al contributo dei dipendenti nell’ottica di nuove proposte progettuali.
Il rapporto “Innovative Workplaces”, pubblicato nel 2010 dall’OCSE, affronta – calandola nel presente dei nuovi modelli imprenditoriali – una discussione dalle radici antiche: quella dell’efficienza delle organizzazioni. Ossia la sfida di riuscire a garantire il massimo apporto da parte dei componenti, promuovendone capacità, competenze e inclinazioni e al tempo stesso inscrivendo il loro lavoro in un contesto caratterizzato da vincoli e obiettivi. Ridurre ciò a un problema di equilibrio tra “bastone” e “carota” sarebbe semplicistico e fuorviante. Si tratta semmai di un bilanciamento tra l’esigenza di consolidare la propria attività di impresa secondo processi condivisi e strutturati e la capacità di innovare. Non a caso – e i dati dell’OCSE lo confermano – le organizzazioni che si dotano di formazione non solo in forma continua, ma anche “discrezionale” per i dipendenti sanno creare prima e meglio degli altri nuovi prodotti e servizi. Come a dire: innovare dentro per innovare fuori.
È la fine della distribuzione gerarchica delle competenze? Non ancora. I modelli sono (fortunatamente) più duri da scalfire di quanto non possa sembrare. I mutamenti richiedono gradualità e criteri di adattamento, di ordine non solo culturale ma anche organizzativo, diversi da settore a settore. Quel che pare certo è tuttavia che le forme di condivisione della conoscenza all’interno di un’impresa – specie quelle ad alta intensità tecnologica in termini di processi e prodotti – debbano giovarsi di nuovi strumenti, anche concettuali, che rendano premiante l’apertura dell’informazione quale risorsa comune e socializzata. Un po’ come accade, a un altro livello di astrazione, tra gruppi di imprese che condividono le stesse infrastrutture in una logica di “open innovation”, come nel caso dei distretti tecnologici.
E in Italia? Stando all’ultima rilevazione (2005), quasi il 40% della forza lavoro opera entro un modello organizzativo tradizionale e/o “taylorista” (ossia parcellizzato), caratteristica comune ad altri paesi di analoghe dimensioni come Germania e Regno Unito. I più avanzati, guarda caso, sono i nordici: in Svezia il superamento dei modelli basati esclusivamente sulla gerarchia, aprendo a possibilità di problem solving non codificato, toccano due lavoratori su tre. Prendiamoli ad esempio: ricordandoci però che il nostro tessuto industriale è diverso.

OECD (2010), Innovative Workplaces: Making Better Use of Skills within Organisations
pp. 151
OECD Publishing, € 29
ISBN 978-92-64-09567-0

Raimondo Iemma è ricercatore presso la Fondazione Rosselli