L’opera lirica è una delle tradizioni italiane più apprezzate all’estero e una delle componenti culturali che maggiormente riporta agli splendori operistici del Belpaese. Eppure, in tempo di crisi, scosse burrascose sono state percepite anche dai settori di punta dello spettacolo dal vivo italiano che, con l’iniziale annuncio di riduzione del Fus, hanno visto molto vicina la chiusura di alcune istituzioni teatrali storiche del nostro paese. Il reintegro del Fondo Unico prima e l’approvazione del regolamento attuativo della legge Bondi di riforma degli enti lirico-sinfonici poi, hanno dunque rappresentato una sferzata di aria buona, laddove di arie se ne cominciava davvero a sentire la mancanza.
Il 5 maggio, infatti, il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera definitivo al regolamento di riforma delle fondazioni lirico – sinfoniche, suggellando di fatto la firma apposta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo scorso anno.
“Entro la fine del 2011 – ha chiosato soddisfatto il neoministro Galan – mi impegno a completare questa riforma, portando a termine tutti i restanti provvedimenti al riguardo”.
Nel frattempo, ad esultare sono la Fondazione Teatro alla Scala di Milano e l’Accademia Santa Cecilia di Roma che, sulla base delle nuove norme attuative potranno dotarsi, già dai prossimi mesi, di un importante riconoscimento di autonomia che potrà portare, qualora gestito con accortezza, vantaggi nella gestione e nella programmazione dei cartelloni stagionali teatrali e operistici.
Sette i requisiti dettati dal Governo affinché le fondazioni possano aspirare ad una maggiore autonomia e posseduti, ad oggi, solo dalle due istituzioni di Milano e Roma: specificità della fondazione nella storia della cultura operistica italiana, assoluta rilevanza internazionale, pareggio di bilancio per almeno quattro anni consecutivi, eccezionale capacità produttiva, significativo e continuativo apporto finanziario da parte di soggetti privati, capacità di attrazione di sponsor, entità dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni non inferiore al 40% dell’ammontare dei fondi governativi.
Caratteristiche che comunque, a prima vista, appaiono del tutto slegate a termini oggettivi di paragone: “eccezionale” capacità produttiva non è infatti misurato ad alcuna “normale” capacità produttiva, non adducendo dati, né numeri di sorta che possano far comprendere la mole di lavoro necessaria all’inclusione nel requisito. Così come la “rilevanza internazionale” che si traduce il più delle volte nel numero di tournee effettuate, o l’apporto finanziario dei privati che si replica nel successivo requisito in cui la “capacità di attrazione degli sponsor” presuppone di fatto l’intervento di aziende private.
Per quanto riguarda il bilancio, poi, facile prevedere rimedi dell’ultim’ora: come nel caso della Scala di Milano che, per poter chiudere il bilancio di quest’anno in pareggio, ha chiesto ai propri soci fondatori un contributo straordinario di due milioni di euro, necessario affinché si potesse ascrivere la Fondazione nell’elenco delle realtà virtuose a cui riconoscere maggiore autonomia.
Bruno Ermolli, vicepresidente della Fondazione milanese, parla al proposito di una grande svolta epocale in grado di permettere al teatro La Scala una programmazione a lungo termine (con ricadute positive sulla qualità degli spettacoli) ma soprattutto la possibilità di una contrattazione dei dipendenti autonoma dai contratti nazionali, facoltà che la riforma prevede solo per le realtà più autonome. Proprio su questo punto, però, si teme lo scontro con le principali sigle sindacali le quali si sono già dette assolutamente contrarie all’allontanamento della categoria dal contratto collettivo nazionale.
Importanti mutamenti si auspicano anche nei cda delle fondazioni autonome i quali potranno aprirsi ad una maggiore internazionalizzazione e ad un maggior contributo dei privati, risultando così appetibili per sponsor e imprese.
Tutto rose e fiori? Non proprio. Le fondazioni che godranno infatti di tale autonomia sono infatti solo due su quattordici e ampia è ancora la forbice che distanzia le istituzioni più virtuose da quelle che presentano maggiori difficoltà a mantenere un ritmo di crescita stabile.
Negli ultimi dieci anni, infatti, i teatri dell’opera hanno accumulato un debito di oltre 180 milioni di euro nonostante i 3,4 miliardi di euro finanziati dallo Stato: un grave segnale di crisi che getta le fondazioni più piccole e periferiche in un evidente stato di allarme che va considerato anche in rapporto agli altri paesi europei che contano su un indice di produttività decisamente maggiore rispetto a quello italiano (125 recite d’opera della Scala contro le 226 recite della Staatsoper di Vienna ad esempio, per citare solo le maggiori), indicatore legato alla questione occupazionale e, di fatto, a quella economica di sostentamento finanziario.
Si spera dunque che le fondazioni più grandi e produttive che oggi possono beneficiare dei privilegi offerti loro dalla riforma, costituiscano nel futuro un traino virtuoso per l’intero comparto da anni immobilizzato da difficoltà economiche e gestionali ancorate ad un sostegno economico statale che limita, nel bene e nel male, le naturali logiche del mercato.