Sono seduta ad un ristorante di Roma e mi trovo di fronte un improvvisatore che mi dice: “ Ma secondo te perché uno va a vedere uno spettacolo di improvvisazione?”.
Penso rapidamente alle ultime serate passate tra l’Ambra Garbatella e  il Teatro Mongiovino, alla rassegna Tre Settimane per Improvvisare che si è tenuta al teatro allo Scalo lo scorso inverno, ai prossimi spettacoli presenti nell’estate romana offerti dalle numerose associazioni presenti sul territorio.
“Non lo so”, rispondo,”per staccare”, lui mi dice :”Uno spettacolo di Shakespeare lo vai a vedere anche per il testo, ti può piacere o meno a seconda che gli attori siano più o meno bravi, delle scelte registiche, ma è la storia che ti guida, i suoi messaggi…invece con improvvisazione è diverso, la gente viene a vedere gli improvvisatori, non il contenuto dello spettacolo…vuole vedere come se la cavano, se falliscono o meno”.
Ci rimugino tornando a casa; questi spettacoli in effetti non portano messaggi sociali, non trattano contenuti aulici, non sono associabili alla  “didattica”, non hanno la pretesa di fornirti arricchimento nozionistico o di insegnarti qualcosa. Sono più simili agli spettacoli acrobatici, quelli dove ci vai per sorprenderti di cosa sia capace il corpo umano, solo che in questo è la mente da cui ti aspetti qualcosa, la parola e la sintonia tra due che si trovano a condividere uno spazio scenico e a dover raccontare una storia che neanche loro conoscono, dove il pubblico spesso dà input più o meno fantasiosi diventando ideatore.
E l’improvvisatore è lì, come un Dio demiurgo che deve creare l’universo immaginato dallo spettatore e farlo stupire, deve inventarsi storie credibili che paiano uscite da testi shakespeariani e un minuto dopo attaccare lucchetti sul palco perché siamo passati a Moccia. Solo che non ha castelli di Elisinore da descrivere, lucchetti e neppure il deus ex machina che scende e salva le euripidee tragedie greche.
Il pubblico si diverte a mettere gli improvvisatori in situazioni sempre più difficili, ma non vuole vedere dove può arrivare l’improvvisatore,a cercare il limite,  aspetta di vederlo vincere ponendolo sempre più vicino ad un fallimento potenziale, e, quando lo vede in difficoltà, è spesso benevolo, l’improvvisatore diventa rappresentante delle debolezze che ognuno di noi riconosce come proprie, esce dall’aura del palco e forse è visto come uomo.
“Alziamo i calici e brindiamo a quel sogno che sarà questa sera la realtà”, sono queste le ultime parole dell’inno che fa da prologo al match di improvvisazione teatrale, format improvvisativo Made in Canada che si sta sempre più diffondendosi nel BelPaese.
E’ effimera l’improvvisazione, dura cinque minuti o un’ora, è forse forma d’arte non riproducibile nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte di cui ci parla Benjamin.
Shakespeare NON ha scritto tutto dice il volantino, a prima vista arrogante, del Destino dei Secondi, altro format di recente diffusione, il resto ce lo raccontano i testimoni della fantasia degli spettatori che può sbizzarrirsi senza paura…tanto non rimane traccia, gli improvvisatori non scrivono nulla, non fanno la raccolta differenziata delle proposte, regalano solo qualcosa di  se stessi e sono loro che torniamo inesorabilmente a vedere.