Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
Accompagnato dalle sue attrici Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg, il cineasta danese Lars von Trier ha risposto alle domande della stampa internazionale con la sua solita reticenza e il suo linguaggio criptico dopo la proiezione di Melancholia, in competizione al 64mo Festival de Cannes. Una conferenza stampa terminata con le imbarazzanti esternazioni del regista sul nazismo che gli sono valse, l’indomani, l’espulsione dal Festival…
Cosa l’ha spinta a realizzare un film sulla fine del mondo?
Non è è esattamente un film sulla fine del mondo, ma un film su una condizione mentale. Ho vissuto molte fasi di malinconia nella mia vita. La malinconia esiste nell’espressione artistica che amo e fa parte di tutte le forme artistiche più importanti. È legata al sentimento di desiderio, ed è ciò che ha di particolare questo film, che è leggermente diverso dagli altri miei film, dato che sin dall’inizio ci sono elementi di desiderio, di pathos, di dramma. Esistono diversi tipi di film. In generale andiamo a vederli per sapere come vanno a finire. Ma io non sono d’accordo con quest’idea, dato che spesso conosciamo già la fine, come quando guardiamo un James Bond e sappiamo che sicuramente sopravviverà. Vogliamo solo vedere come va a finire esattamente, come i personaggi reagiscono nel corso del film. Ho pensato che fosse interessante presentare tutto questo in modo molto chiaro sin dall’inizio, insomma mostrare la fine del film. Perché in film di questo genere abbiamo l’impressione di sapere come andrà a finire, ma speriamo di sbagliarci.
Perché il personaggio di Justine, interpretato da Kirsten Dunst, vive così male il suo matrimonio?
Il matrimonio le fa nascere una certa malinconia, ma lei era già una persona che tendeva alla tristezza. Spera che il matrimonio possa aiutarla, che la sua vita possa trovare un equilibrio, ed è chiaro che questo non avviene. Abbiamo discusso molto con Kristen Dunst su come la depressione dovesse essere rappresentata e lei se l’è cavata più che bene, soprattutto utilizzando lo sguardo.
Come la capanna magica nel film, nella vita il rifugio è l’arte?
Al momento sto studiando il conflitto tra la chiesa occidentale e quella orientale, tra quella cattolica e quella ortodossa. In quest’ultima c’è più piacere, mentre quella occidentale è più orientata alla sofferenza, al dolore, alla crocifissione. Ci vuole la luce divina, una mutazione attraverso la luce. Per me la luce è il cinema o potrebbe essere il cinema. Guardo molti film e spesso ho quasi voglia di piangere perché quello che vedo è la luce divina. Quando Gesù va sulla montagna, vede la luce e in questa luce forse non c’è tanta speranza, ma c’è la vita. Se un film ha questi elementi… Alcuni dei miei film preferiti mi danno questa luce. Sono un uomo che ama i concetti di sofferenza, dolore, colpa, ma c’è anche l’altra faccia della vita, quella luminosa che i film possono mostrare. Stiamo distruggendo la terra, ma non è affatto preoccupante dato che comunque un giorno o l’altro moriremo tutti.
A che cosa si è ispirato per quanto riguarda la fotografia?
Diversi quadri, di stili differenti, pittori tedeschi, Preraffaelliti. Cerco nel mio hard disk ciò che va meglio per il film. E poi c’è anche l’ispirazione di grandi registi come Antonioni e Tarkovski.
È contento del film?
Sì, è stato un piacere girarlo. Ci siamo fatti molto trasportare dalla musica di Wagner, e il film è diventato troppo romantico. È una cosa positiva, ma poi riguardando i giornalieri non mi piaceva questo romanticismo. Non sono più sicuro, forse il film non vale niente. Spero che non sia così, ma…