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“Sono due anni che manchiamo da Roma: vogliamo abbracciarvi”. Si apre così Luglio suona Bene, inizia così ad emozionarsi l’atmosfera dell’Auditorium di Roma davanti al ritorno dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
Ritornati da concerti in giro per il mondo, loro che costituiscono da soli, a guardarli lì sul palco, una sintesi armoniosa di quello che ti puoi portare a casa da un viaggio, da un giro panoramico sul mondo appunto, il mondo diventa improvvisamente abbracciabile, ognuno ambasciatore del proprio Paese riconoscibile dalla particolarità dello strumento che suona, dal vestito.
Sono 19 nella formazione questa volta predisposta dall’instancabile Mario Tronco e sono passati 10 anni dal salvataggio del Cinema Apollo di Roma dal suo destino di Bingo, patria natale di questo esperimento multiculturale diventato esempio, forza e speranza di un’integrazione culturale che può diventare fusione di anime ben distinte, che non perdono nulla della loro essenza, ma che la rendono incredibilmente accessibile alle altre.
L’Orchestra ha le sue radici nell’omonima Piazza all’Esquilino, grazie alla partecipazione di alcuni cittadini che, auto-tassandosi, hanno dato possibilità di messa in regola e di lavoro a musicisti provenienti dai cinque continenti; essi rappresentano dunque l’arte che può salvare e ed essere funzionale alla società civile, che troppo spesso tende a considerarla solo come rifugio.
Sono 11 i Paesi rappresentati sul palco, Italia compresa, e la prima canzone è dell’inglese Sylvie Lewis, sempre più frequentemente membro dell’orchestra, con I don’t want to sleep.
L’aria si riscalda, e per il pubblico stare immobile sulle proprie sedie è via via sempre più difficile perchè la musica dal palco diventa sempre più coinvolgente.
Passando per atmosfere mediterranee si arriva fino a Mozart, scovando un po’ di Centro-Sud America e scorgendo l’India, il Rajasthan, nella voce di un senegalese. E’ un omaggio a Bilal, per molti anni componente dell’Orchestra e rappresentante del Rajasthan: il suo amico e collega senegalese ha imparato a memoria le parole delle canzoni popolari del Rajasthan e ce le regala; forse quest’esperienza fa sognare davvero, anzi, dà vita ad un’idea di illimitatezza dei confini della cultura, riporta le parole alla loro condizione di suoni e alla malleabilità del loro significato senza perdere la funzione di veicolo comunicativo da un uomo all’altro, distanti tanti chilometri sulla cartina e che si sono incrociati in un terzo Paese lontano dalla strada di entrambi.
L’Orchestra continua ad arricchire il proprio repertorio e, nella presentazione di questo laboratorio aperto questa volta Mario Tronco, introduce anche Fabrizo Bentivoglio creando una commistione tra parole e musica dedicata a Charlie Mingus, musicista statunitense, meticcio, vittima di espisodi di razzismo sia da parte di bianchi che di neri, che ha vantato collaborazioni con artisti del calibro di Miles Davis e il cui genere musicale è definito come jazz-entno-folk-dance. “E’ il nostro”, dichiara Mario Tronco. E’ il loro. Sono loro una forma estrinseca del concetto di universalità che viaggia nella parola musica.
Approfondimenti:
www.orchestradipiazzavittorio.it