Esistono due pericoli forti per lo stile di vita contemporaneo, tanto ipotizzati in teoria quanto attuali e reali: il picco del petrolio, che significa la fine della disponibilità di tale risorsa a basso prezzo, e la teoria del riscaldamento globale, cioè il progressivo innalzamento della temperatura media del pianeta causata dall’emissione di gas-serra.
Il verificarsi di queste due situazioni avrebbe ripercussioni gravissime e traumatiche sul nostro stile di vita e, probabilmente, sulla nostra stessa sopravvivenza.
C’è chi si è posto il problema prima che fosse troppo tardi partendo da teorie accademiche fino a realizzare esempi pratici di soluzioni. Stiamo parlando del “modello della Transizione”.
Si tratta di un movimento culturale nato nel 2003 con l’obiettivo di ricondurre i modelli sociali di sfruttamento delle risorse ad una dimensione consapevole e rispettosa dei limiti biologici del pianeta. Il modello propone la strutturazione di una comunità sostenibile e altamente vivibile: la “città della transizione”.
Le prime “città” di questo tipo sono nate nel 2005 in Irlanda (Kinsale) e nel 2006 in Inghilterra (Totnes) ad opera del Prof. Rob Hopkins e dei suoi studenti, dando inizio ad un percorso fatto di consapevolezza, di messa a sistema di molti progetti sui diversi aspetti della vita quotidiana e dell’idea di poter giungere ad una autonomia non solo energetica.
L’obiettivo perseguito è di sviluppare la “resilienza” delle comunità: la capacità di un sistema di adattarsi e sopravvivere ad eventi esterni, anche di tipo fortemente traumatico, come il picco del petrolio e il riscaldamento globale.
Il sistema non prevede solo la ricerca di mezzi alternativi al petrolio ma varie misure quali la creazione di gruppi di acquisto solidale, l’installazione di pannelli solari, la creazione di orti condivisi, il riciclaggio di materie di scarto come materia prima per altre filiere produttive, o semplicemente la riparazione di vecchi oggetti non più funzionanti in luogo della loro dismissione.
Un esempio esplicativo e caratteristico di questi modelli è l’utilizzo della “permacultura”, una pratica integrata di progettazione e conservazione consapevole ed etica di ecosistemi produttivi.
I progetti della “transizione” sono costituiti da proposte fattive e ricche di buon senso pratico, basate sul presupposto che siamo, ormai, in possesso delle tecnologie e delle competenze necessarie per costruire una realtà alternativa sostenibile e più vivibile del mondo attuale.
Le mosse necessarie a creare una “città di transizione” sono descritte operativamente sul sito www.transitionnetwork.org in 12 “passi”, riconducibili, sostanzialmente, alla diffusione delle informazioni necessarie ad una generale presa di coscienza, al collegamento con le realtà pubbliche e private pre-esistenti e alla formazione di gruppi specifici che curino i diversi aspetti necessari, scientifici e pratici.
Al mondo esistono ormai numerose “città della transizione”, concentrate soprattutto in Inghilterra, Irlanda, Nuova Zelanda e Australia, ma ne abbiamo alcuni esempi anche in Italia, dove le prime città a raccogliere la sfida sono state Monteveglio e San Lazzaro, fino ad arrivare a circa 20 comunità italiane che si stanno impegnando nel percorso di transizione.
I sostenitori del modello di transizione sono consapevoli dei problemi caratteristici di tale percorso e delle obiezioni più frequentemente sollevate dalle persone intenzionate ad intraprenderlo: li definiscono i “sette ma”, relativi alla mancanza di fondi, alle eventuali resistenze della comunità, delle istituzioni o degli interlocutori locali così come alle difficoltà tecniche e alle speranze di successo dell’iniziativa.
E’ importante quello che viene sottolineato su vari portali della “rete”: il “modello di transizione” è una delle migliori applicazioni pratiche del motto “pensare globalmente, agire localmente”.
E’ possibile cominciare a cambiare le cose partendo da se stessi, dalla propria casa e dalla propria comunità; è il necessario primo passo e, inoltre, tanto l’esempio etico che la dimostrazione della fattibilità pratica e dei vantaggi derivanti dal “modello” sono la migliore formula per propagare l’idea della transizione.