“I problemi dei giovani sono diventati un tema ricorrente negli ultimi 50 anni nelle riflessioni dell’OCSE sulle politiche per l’occupazione”: questa potrebbe essere l’affermazione più adatta a condensare ciò che si evince dall’ultimo Rapporto OCSE sull’Occupazione 2011 presentato lo scorso 15 settembre. Il problema, difatti, sono, forse per il 50esimo anno di fila, i giovani e il loro ingresso nel mondo del lavoro.
Complici la crisi, il livello di istruzione, le disuguaglianze che ancora oggi dividono studenti facoltosi da quelli meno abbienti, politiche governative non attente alla problematica, i giovani sono ad oggi la classe sociale più svantaggiata, e non solo in Italia. Nei primi tre mesi del 2011 il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) ha infatti raggiunto, nell’area Ocse, il 17,4% con un rischio sempre più concreto di emarginazione dal mercato del lavoro.
Nello specifico, il tasso di disoccupazione italiano è cresciuto di oltre 2 punti percentuali rispetto al secondo trimestre del 2007 mettendo in evidenza un aspetto peculiare del nostro mercato: la segmentazione del lavoro che vede aumentare la percentuale di lavoratori precari, con contratti atipici, lavoratori subordinati camuffati da collaboratori senza alcuna tutela.
Il dato paradossale evidenziato dall’OCSE è proprio quello relativo alla restrizione dei contratti a tempo indeterminato: se da un lato, infatti, il loro diminuire ha contribuito a non far dilagare la recessione sul mercato del lavoro, dall’altro però si sono scoraggiate le assunzioni, mettendo a rischio il rilancio economico.
Caratteristica tutta italiana è inoltre la contrazione della spesa delle famiglie collegata alla riduzione dello stipendio. Tradotto: se un impiegato italiano subisce una decurtazione di stipendio, la famiglia intera spende meno, a causa dello scarso assorbimento di shocks da parte dei nostri ammortizzatori sociali. Come dire che alla spesa del singolo corrisponde la spesa di un’intera famiglia, essendo, nella maggioranza dei casi, un solo stipendio quello che regge effettivamente l’intero nucleo familiare.
Non aiuta inoltre la consapevolezza di avere gli stipendi più bassi dell’area euro (una media di circa 27 mila euro l’anno) che cozza con il primato di maggior numero di ore lavorative in assoluto rispetto agli altri paesi del G7 (1.778 ore l’anno).
Non che gli altri paesi siano messi molto meglio: Estonia, Irlanda, Grecia, Slovacchia e Spagna devono fare i conti con i tassi di disoccupazione più alti in assoluto e anche gli Stati Uniti si stanno adoperando per provvedere alla ripresa dopo che la percentuale dei disoccupati ha toccato quota 29% nel 2010 (era del 10,6% nel 2009).
E allora, quali le correzioni da apportare? Secondo il rapporto, un accesso paritario all’istruzione e una disciplina univoca che regoli i contratti di lavoro, tutelando quelli dei giovani e delle fasce protette potrebbe essere un primo passo funzionale, almeno, ad un ritorno di fiducia da parte dei giovani verso il mondo del lavoro.
Eppure l’Italia, ha deciso di muoversi in altro modo: nella recente manovra, infatti, è stato regolamentato nell’articolo 11 il cosiddetto “tirocinio formativo”, noto ai più come “stage”, decretando che il suo svolgimento può essere effettuato massimo dopo 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio e per massimo 6 mesi. Qualche accenno alle ispezioni e alla differenziazione tra tirocini di formazione e di reinserimento, ma ancora nessuna traccia di direttive univoche riguardanti rimborsi spese e chiarimenti riguardo la competenza territoriale tra stato e regioni in materia.
Partire dai primi contatti dei giovani con il mondo del lavoro introducendo norme che incoraggino l’assunzione rappresenterebbe di certo un passo importante per la crescita occupazionale. Entro il 14 ottobre, tutta la manovra, compreso l’articolo 11, passeranno al vaglio del Parlamento per essere trasformati in legge. Il prossimo Rapporto Ocse ce ne comunicherà l’efficacia.