Intervista a Corina Apostol, fondatrice di ArtLeaks

Di arte e cultura nel nostro paese ultimamente se ne è parlato molto. La crisi, i problemi dei lavoratori del sistema spettacolo, gli scrupoli davanti a facoltose sponsorizzazioni e soprattutto la politica di governo – o la sua assenza – hanno ricordato a tutti che, checché se ne dica, esiste davvero un sistema cultura. Una macchina che, funzionante o meno, catalizza persone e soprattutto interessi, sia economici che politici. Poco o niente, invece, si parla di chi quella macchina la fa funzionare, delle migliaia di persone che da una parte progettano e gestiscono e dall’altra producono la materia prima per mostre, eventi, festival, musei e tutte quelle occasioni di fruizione culturale e artistica che costellano il nostro paese.
Quasi come se dessimo per scontato la loro presenza e che coloro che le rendono possibili non siano dei professionisti alla pari di architetti, ingegneri, commercialisti o anche commercianti e artigiani, ma dei volontari, delle persone che alla fine fanno quel mestiere perché ci credono e gli piace.
Fermo restando questi ultimi due elementi, a pensarci bene non c’è motivo – anzi – per cui essi debbano in qualche modo penalizzare le condizioni di persone che, per quanto si tenda a dimenticarlo, vivono del loro lavoro alla stregua di chiunque altro. Quando si parla del PIL del settore delle industrie culturali e creative sarebbe interessante analizzare anche come esso venga prodotto, quanto lavorano e guadagnano gli addetti alla cultura, come sono gestite le organizzazioni e le loro politiche, quali sono i contratti stipulati, etc. Pensare insomma in termini di professionisti e non di volontari, e di tutte le problematiche e i diritti connessi.
Si rischierebbe così di scoprire una realtà ben diversa dall’immaginario collettivo, fatta anche di persone che affrontano sacrifici e subiscono ingiustizie sia perché ci credono, sia perché quello è il loro mestiere e di quello vivono. Criticità presenti in tutti i settori, ma forse ancora di più in un ambito che per la maggior parte delle persone non rientra neanche nella sfera del lavoro.
Proprio dalla frustrazione e dal bisogno di far fronte comune per cercare di arginare quella che è ormai diventata una prassi in molte organizzazioni, è nato il progetto di ArtLeaks, una piattaforma globale che sottopone al giudizio pubblico situazioni, eventi, pressioni politiche e ingiustizie subite da lavoratori e organizzazioni culturali in tutto il mondo. Una piattaforma internazionale gestita da un piccolo collettivo – i membri sono americani, francesi, rumeni e russi, con la presenza italiana della performer e coreografa Valentina Desideri – finalizzata a raccogliere e diffondere segnalazioni provenienti da chiunque sia in grado di supportare le proprie affermazioni con documenti, foto o qualunque altra testimonianza verificabile e attendibile. Perché lo scopo non è fare pettegolezzo o screditare le istituzioni, ma contribuire a proteggere i lavoratori della cultura.
Il sito ha pubblicato al momento i primi tre casi – uno sulla gestione del Padiglione Unicredit in Romania, uno sul Kandisky Prize e un terzo sulla Biennale di Mosca – ed è in attesa di contributi e collaboratori che ne moltiplichino l’impatto, anche dall’Italia.
Per capire meglio il progetto, abbiamo intervistato Corina Apostol, uno dei membri del collettivo che gestisce la piattaforma.
Esistono condizioni particolari legate al sistema internazionale dell’arte e della cultura che vi hanno spinto a  dare vita al progetto Art-leaks in questo specifico momento? Oppure la vostra denuncia nasce da un sistema che ritenete da tempo consolidato nel mondo dell’arte?
Il nostro progetto nasce da una particolare situazione di conflitto con il Padiglione UniCredit, un centro d’arte contemporanea di Bucarest finanziato da uno dei gruppi bancari più importanti di tutta Europa. Noi (i firmatari della “Lettera di protesta collettiva del Padiglione UniCredit” che potete leggere sul nostro sito) abbiamo, infatti, visto venire compromessa la sua missione di fornire uno spazio per il pensiero critico e il dialogo, attraverso manovre repressive della direzione nei confronti di coloro che hanno criticato la loro politica e il dubbio coinvolgimento con il main sponsor. Nel corso di 2 anni abbiamo raccolto testimonianze di diversi casi in cui questo centro ha agito contro gli interessi dei lavoratori e del pubblico che pretende di servire, e considerato ciò, la nostra responsabilità civile e politica non ci ha permesso di lasciare che questi avvenimenti venissero nascosti, ma ci ha portato a sottoporli al giudizio pubblico.
La nostra lettera di protesta ci ha poi portato a discussioni più ampie e ci ha fatto capire che non eravamo di fronte ad un caso particolare di abuso e di violazione dei diritti dei lavoratori culturali (non solo artisti, ma anche curatori e critici sono di solito coinvolti), ma alle condizioni generali di disuguaglianza e precarietà che colpiscono tutti noi, sia che tu sia un artista o un critico in Romania o che lavori nel campo della cultura in Francia, Italia, Russia, ecc. Tutti noi avevamo sperimentato e dato voce a proteste contro l’aziendalizzazione pervasiva dell’arte contemporanea e della cultura, contro l’accumulazione di capitale culturale da parte di banche o fondazioni attraverso il lavoro di operatori culturali che non vengono in cambio compensati, e,  ciò che è più preoccupante, alla soppressione di qualsiasi tipo di dibattito attorno a queste condizioni di sfruttamento e alla politica di sponsorizzazione aziendale.
Per questo, se da una parte il progetto è stato generato da discussioni su un contesto particolare, dall’altra ci ha portato a collegarci con le grandi questioni e alle altre iniziative che sono connesse ai diritti dei lavoratori culturali ( e che potete scoprire andando alle sezioni “Cause Related” e “Further Reading” del sito). Abbiamo stretto alleanze con queste iniziative diversificate geograficamente e abbiamo promesso di continuare a collaborare e di sostenerci a vicenda.

Mi può dire quali sono le vostre principali fonti di informazione?
Relativamente ad ogni caso ci affidiamo all’artista/i o curatore o agli intellettuali coinvolti in simili situazioni di abuso. Abbiamo ideato un modulo online di presentazione attraverso il quale è possibile registrarsi e raccontare in un paio di paragrafi la specifica situazione e come essa si collega alla nostra missione. Ogni presentazione è rivista da noi in qualità di moderatori e se decidiamo che la storia è valida e solleva questioni importanti, chiediamo di sostenere le affermazioni con evidenze di qualsiasi tipo (orali, scritte, elettroniche) e di qualsiasi formato (e-mail, foto, video, registrazioni). Da quel momento lavoriamo con il “collaboratore” su base individuale su un testo che costituirà il contributo che verrà pubblicato sul sito. Abbiamo presentato fino ad ora 3 casi come esempi del tipo di processo critico che desideriamo fornire al pubblico. Non stiamo cercando di pubblicizzare un qualche tipo di pettegolezzo e scandalo, ma stiamo cercando di produrre profondi testi politici che si occupino del sistema dell’arte e dei casi di corruzione e repressione. Attraverso questi dibattiti pubblici cerchiamo di de-familiarizzare il lettore dagli atteggiamenti arroganti normalizzati da molti manager culturali e istituzioni finanziate dai capitali e dal potere e di incoraggiare gli operatori culturali ad unirsi e lottare insieme contro queste pratiche.

Non avete paura di essere tagliati fuori dal sistema internazionale dell’arte e della cultura a causa della vostra iniziativa?
Penso che tutti noi che siamo coinvolti in questo progetto ci siamo assunti i rischi che vengono con l’esposizione ai più importanti protagonisti del mondo dell’arte, ma contiamo di creare un fronte unitario che abbia le potenzialità di innescare un movimento di resistenza. Siamo convinti della nostra missione, della forza delle nostre convinzioni e del fatto che attraverso la costruzione di una solida rete di collaboratori creeremo un contro-potere capace di ribaltare la situazione contro la corruzione e la logica di accumulazione del capitale che si vede tristemente radicata nel mondo dell’arte e della cultura. Vorrei anche portare alla vostra attenzione i progetti di attivismo che gli artisti del nostro gruppo hanno da sempre inserito nelle loro attività e a cui potete accedere attraverso i rispettivi siti web nella nostra pagina “Contact”. Non abbiamo quindi dato vita a questa lotta, ma essa semplicemente è al centro delle nostre attività nel lavoro di tutti i giorni. Ciò che è eccitante di ArtLeaks è la possibilità di stimolare la solidarietà tra gli operatori culturali e richiamare l’attenzione pubblica su simili avvenimenti, dando così forza alle nostre inchieste.

In Italia esiste una sorta di tabù nei confronti delle istituzioni culturali per cui difficilmente si pensa che si possano macchiare di comportamenti scorretti. Secondo lei nella realtà le istituzioni culturali tendono più a subire torti o ad arrecarli?
Le istituzioni culturali e le reti culturali hanno un ruolo fondamentale nella società in tutti i paesi, indipendentemente dal sistema politico o economico in cui operano. Vorrei sottolineare che noi non vogliamo distruggere le istituzioni, ma mettere radicalmente in discussione il loro funzionamento, il divario tra le attività reali che avvengono inosservate e la retorica di liberazione attraverso la cultura (non mi riferisco solo a centri o musei, ma anche biennali o borse di studio e premi, come si può scoprire cercando nei nostri casi relativi alla Biennale di Mosca nel 2005 e al Premio Kandinsky nel 2008).
Una nostra preoccupazione è anche la trasparenza che manca da parte della direzione e dei consigli di amministrazione o di stato con cui sono in collusione – per esempio il caso molto evidente in cui i dirigenti del padiglione UniCredit hanno ripetutamente soppresso il dialogo intorno ai sostegni aziendali e come questo abbia influito sugli artisti e sul loro lavoro in quello spazio. Questi manager continuano ad usare tattiche di diffamazione e intimidazione su artisti, curatori e intellettuali per ridurli al silenzio; noi riteniamo che siano tattiche inaccettabili e nella nostra lettera ognuno di noi le ha denunciate. Sono tendenze largamente diffuse ed estremamente dannose, per cui  è necessario cercare di smascherarle e rovesciarle, ma questa non costituisce la lotta di un individuo o il problema di un singolo. Dobbiamo capire che è una lotta collettiva, un danno sistematico perpetrato nei confronti di tutti gli operatori culturali. 

Qual è l’idea che vi siete fatti della condizione generale dei lavoratori culturali e le motivazioni che stanno alla base di tale situazione?
Questa è una domanda pesante, si potrebbe scrivere un articolo o un libro proprio solo su questo. Per darvi brevemente la mia opinione, io credo che noi operatori culturali (sia in Europa orientale e occidentale, e sono sicura sia al Nord che al Sud) siamo una tipologia di proletariato, attualmente sfruttabile legalmente nel quadro dell’espansione del neo-capitalismo. Il nostro lavoro, che contribuisce notevolmente alla costruzione di nuovi tipi di conoscenze e all’attivazione di capacità intellettuali nel pubblico, è considerato una sorta di volontariato (che è forse il motivo per cui numerose istituzioni e curatori si aspettano che gli artisti lavorino gratis e si sentono onorati solo per essere inclusi nelle loro manifestazioni) ed è per questo che si è de-professionalizzato e ha perso di valore. Questa non è una novità, ma una condizione storicamente aggravata che alimenta la nozione romantica dell’artista o scrittore come un genio povero. Chiedetevi se nel contesto di una mostra gli organizzatori (prendete ad esempio UniCredit o la Fondazione Erste, che affermano di essere i campioni delle culture locali e delle comunità) avrebbero il coraggio di chiedere a organizzatori, ristoratori, installatori, guardie di sicurezza, direttori ecc. di lavorare gratis. Certo che no. Ma nella maggior parte dei casi gli artisti sono tenuti a mostrare le loro opere gratuitamente e anche i curatori (soprattutto i giovani professionisti) dovrebbero organizzare mostre gratuitamente per promuovere la propria carriera. Nella maggior parte dei casi non sono nemmeno invitati a partecipare alle mostre che espongono le loro opere o usano i loro testi, in modo che a loro volta, possano beneficiarne anche professionalmente entrando in contatto con gli altri attori culturali.
Le opere non nascono per caso sui muri di una mostra e nemmeno i testi critici nei cataloghi o sulle riviste. Sono il prodotto di lavoro umano sia intellettuale che fisico ed è giusto che questi sforzi siano compensati dignitosamente come tutti gli altri tipi di servizi e prodotti di cui beneficia la società. Queste sono il genere di condizioni che vogliamo mettere in discussione apertamente attraverso la nostra piattaforma.

Ci può fare una quadro generale della situazione in Europa e se possibile un accenno all’Italia?
Tutte le mie risposte circa la condizione dei lavoratori dell’arte e sulle istituzioni culturali sotto l’egida di grandi società derivano dalla mia esperienza e dalle esperienze di coloro che hanno collaborato a questa piattaforma e che hanno lavorato principalmente in Europa (sia centro-orientale che occidentale). Posso osservare, lavorando come professionista anche nei musei degli Stati Uniti (negli ultimi 6 anni sto lavorando e vivendo tra la Romania e la costa orientale), che questo tipo di dibattiti in America non sono di solito nascosti sotto il tappeto, e le istituzioni li incoraggiano come legittimi. Ma questo non significa che, ad esempio, non dovremmo essere preoccupati per la gentrification e l’acquisizione di spazi e piattaforme da parte delle grandi società e per la mercificazione sotto l’egida di grandi marchi. Per quanto riguarda l’Italia, non ho avuto ancora alcuna esperienza diretta e sarei curiosa di conoscerne la situazione, anche se dai commenti alla nostra iniziativa provenienti dal vostro paese direi che le persone si sono identificate con la nostra missione e le nostre preoccupazioni.
Penso quindi che tutti questi problemi siano paradigmatici di come le cose possano andare nella direzione della repressione istituzionalizzata delle proteste dei lavoratori culturali e verso  l’appropriazione della cultura e della conoscenza da parte della cultura aziendale. Cerchiamo di offrire ArtLeaks come risorsa in cui sono presentati questi casi esattamente al centro del dibattito del mondo dell’arte contemporanea – in relazione alla politica e all’economia – ma speriamo anche di suscitare un vero coinvolgimento e di ottenere dei risultati per cambiare ciò che è ormai accettato come il status quo. Riteniamo che generando questa coscienza collettiva si possa compiere un piccolo passo, ma fondamentale, verso un sistema di lavoro più equo e dignitoso per i lavoratori della cultura.