L’altro giorno la notizia a sorpresa: la Fondazione Arnaldo Pomodoro chiude. Dopo sei anni di intensa programmazione viene interrotta l’attività dell’istituzione. Dal 31 dicembre l’immenso spazio di Via Solari 35 sarà un enorme contenitore vuoto. La drastica decisione è annunciata da una nota di poche righe.
Le parole del Presidente Arnaldo Pomodoro erano chiare: “Entro fine anno, se la città non ci aiuta, sarò costretto a gettare la spugna”. A poco, quindi, sono valsi i ripetuti appelli dell’artista ottantacinquenne alle istituzioni per mantenere in piedi una delle più floride realtà milanesi, confermando una ormai evidente crisi nel settore culturale.
L’unica fonte disponibile, uno scarno comunicato divulgato, non chiarisce quali siano i motivi che si celano dietro questa decisione che sembra essere irreversibile. Si può solo supporre un mancato appoggio delle istituzioni.
Così un altro pezzo di cultura ci lascia: già Milano rilascia notizie positive col contagocce – basti pensare ai tira e molla attorno al Museo d’Arte Contemporanea – in più i pochi esempi virtuosi non hanno vita facile. Dispiace sapere che alla fine dell’anno sia l’attività espositiva della Fondazione Arnaldo Pomodoro che la sua programmazione culturale si fermeranno. 
Per molti era una piccola Tate Modern milanese: per volontà del suo fondatore, gli oltre tremila metri quadri riprogettati dallo studio Cerri & Associati sulle rovine dell’ex officina idraulica Riva & Calzoni, erano stati trasformati in un nuovo spazio espositivo per accogliere le sculture dell’artista e creare un luogo d’incontro per esponenti della scena culturale internazionale. Lungi dal voler essere un momento autocelebrativo, l’istituzione era un modo dichiarato di restituire a Milano e ai milanesi ciò che qui l’artista aveva ricevuto.
Centro dinamico e creativo, vero e proprio laboratorio sperimentale, la Fondazione, grazie ad un professionale team di esperti e al sostegno di UniCredit, ha saputo divulgare mezzo secolo di storia artistica: da Lucio Fontana alle retrospettive sugli artisti dell’Arte Povera come Jannis Kounellis, Alberto Burri, Alighiero Boetti senza dimenticare le grandi collettive curate da critici di rilievo come Angela Vettese che hanno raccolto per la prima volta a Milano le ricerche dei giovani artisti provenienti dalle più prestigiose residence internazionali, dal Palais de Tokyo di Parigi al Jerusalem Center for the Visual Arts di Gerusalemme.
E ancora ha saputo creare appuntamenti culturali indimenticabili. Vivo è il ricordo della folla sui marciapiedi pronti per la serata concerto con Ennio Morricone, fresco di Oscar o di un pubblico appagato all’ascolto di un grande poeta come Gastone Novelli.
Eppure quest’anno gli annunciati programmi per la nuova stagione saranno annullati. Le mostre dedicate a Penone e Eskinja non troveranno un loro pubblico.
Con la Fondazione chiudono non solo l’affascinante struttura (nel 2006 il progetto riceve il Premio Nazionale di Architettura IN/ARCH-ANCE per un’opera di ristrutturazione edilizia realizzata) ma anche il museo permanente, la biblioteca d’arte, termineranno gli appuntamenti culturali, i seminari, gli eventi musicali e teatrali e le attività didattiche.
Quei tremila metri quadrati tra via Solari e via Savona, che hanno fatto da traino per la riqualificazione di un quartiere torneranno ad essere rovine.
E che fine faranno le possenti opere della collezione che popolavano gli ambienti della fabbrica ristrutturata solo sei anni fa?
Fintanto che la Fondazione continuerà ad esercitare le sue funzioni nello studio di vicolo Lavandai possiamo ancora tener viva la speranza per un nuova officina delle arti.