Faceva freddo a Milano. Faceva freddo anche solo a pensare di restarci, a Milano. Il piano per andarsene però non è che fosse proprio ben definito: “Partiamo il 26. Oppure il 27 mattina”. Questo è tutto quel che eravamo arrivati a partorire. Solo che era ormai il 26 sera, e sembravamo più intenti a dar fondo alle riserve di Braulio avanzate da Natale che a far piani dettagliati. Poi con uno sguardo complice qualcuno tira giù da una mensola il DVD di Marrakech Express. Ce lo vediamo due volte di fila e verso le una del mattino la decisione è presa. “Domattina alle sei e mezza siamo sotto casa tua con la macchina. Si va a Marrakech.” Passo più o meno il resto della nottata a buttar dentro musica a un paio di CD per il viaggio. L’alba è sbadigli, nebbia, sacche buttate nel bagagliaio e strade vuote. Metto su il primo CD sorridendo e dalle casse parte la chitarra ipnotica di Roberto Ciotti, ad aprire la colonna sonora di Marrakech Express. No More Blue, la versione strumentale. Due minuti e trentasette che potrebbero benissimo essere usati come definizione della voce “viaggio” di un ipotetico dizionario musicale. Ora, se non avete mai sentito nominare Roberto Ciotti prima d’ora, non è che questo faccia di voi delle brutte persone. Anch’io lo scoprii solo al secondo passaggio dei titoli di coda di Marrakech Express, e la maggior parte degli “introdotti” lo conoscono appunto più che altro per la colonna sonore di quel film e di Tournè, sempre di Salvatores. Eppure ad andare a curiosare nella sua storia si finisce di nuovo in uno dei grandi crocevia della musica italiana degli anni settanta, quello della IT-RCA di Vincenzo Micocci, che nel suo rientro a Roma (e alla RCA), aveva messo insieme un gruppetto di sconosciuti tipo Francesco de Gregori, Antonello Venditti, Rino Gaetano, Ron, Fiorella Mannoia, Paola Turci, Sergio Caputo, Amedeo Minghi e, santi numi, Lando Fiorini, che poveraccio non lo ricorda mai nessuno.
Roberto Ciotti – uno che nella copertina del suo ultimo album, uscito quest’anno, sembra un incrocio tra Joe Cocker e Bud Spencer – anche se non lo avete mai sentito nominare, è anche quello che ha aperto i concerti del 1980 di Bob Marley, che ha suonato per Quelli della Notte di Arbore ed è andato in tournè a Togliattigrad, e questo magari già basta a farvelo star simpatico. Fatto sta che se avete appena imboccato all’alba una strada decisa qualche ora prima e mettete su Roberto Ciotti, all’improvviso sembra che quella strada possa portare davvero verso qualunque luogo, che sappiate o meno (meno, nel nostro caso) dove dormirete quella notte. Magari verso Marrakech. O magari verso una delle tante destinazioni (geografiche o no) immaginate da schiere di persone dopo anni di lavoro che sono sembrati davvero tropo intensi, o magari soltanto troppi, da quando avevano sognato di staccare la spina per un pò. Non per sempre, ma per un pò. Per un anno o qualche mese di sabbatico in cui fare qualcosa di diverso che era rimasto nel cassetto (magari anche un figlio), o per seguire un’ispirazione nuova, prima di tornare – contenti – alla propria scrivania, di noce o formica che sia.
In Italia non sono molte le aziende ad offrire programmi strutturati per permettere periodi sabbatici ai dipendenti (nè tantomeno il sistema scolastico si è evoluto in modo da facilitare il gap year relativamente popolare tra gli studenti di Inghilterra, Australia o Canada). Eppure altrove (o di riflesso, attraverso le multinazionali), c’è stata un’attenzione crescente da parte delle aziende, che ne riconoscono i vantaggi in termini di retention, di sviluppo dei talenti, di employer branding e persino di produttività (una volta tornati, si capisce). Deloitte offre ad esempio la possibilità di avere un sabbatico fino a sei mesi agli alti potenziali che sono in azienda da almeno due anni, mantenendo il 40% dello stipendio. American Express ha un programma simile, mentre General Mills si è inventata un “innovation sabbatical” con il quale i dipendenti che abbiano superato i sette anni di anzianità possono partire fino a sei mesi pagati per svolgere ricerche che possano tornar utili all’azienda, o fino a tre mesi (non pagati) per fare un pò quello che gli passa per la testa. È una valvola di sfogo importante, che può permettere di coltivare talenti in un’ottica che non sia solo di breve termine, e che risconosce i dipendenti come individui complessi, compresi i loro interessi extra lavorativi, e non solo come operai in un termitaio. E che riconosce anche all’azienda un ruolo più ampio di partner nel medio periodo, di compagnia di viaggio. Magari permettendoti di partire per quello che hai sempre sognato, di viaggio, con la chitarra di Roberto Ciotti che miagola dalla radio. Per andare a fare il cuoco per sei mesi a Djemaa el Fna, la cucina a cielo aperto più grande del mondo. A Marrakech.

Nota: questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info