Se l’Italia è internazionalmente riconosciuta per la moda e lo stile, la cucina e i tesori d’arte arrivati fino a noi, lo è assai meno per la sua produzione contemporanea, per ragioni che vanno dalla ridotta diffusione della lingua, alla mancanza di importanti distributori italiani sul mercato mondiale. Questo non significa che i nostri libri, dischi o opere d’arte non trovino spazio nelle biblioteche, nei negozi e nelle gallerie straniere, ma quando accade è il risultato di logiche di volta in volta diverse e non di un “grande progetto” commerciale o culturale.
E allora può succedere che ad una bancarella alla periferia di Mosca l’occhio vi cada su una fila di musicassette di Toto Cutugno, di venire a sapere che migliaia di persone hanno assistito al djset dei Crookers a Sydney, di scorrere il sito del festival Bonnaroo in Tennessee e leggere del live di Jovanotti; e ancora del Concerto Grosso dei New Trolls in Corea e delle edizioni giapponesi dei dischi piano solo di Bollani. Si potrebbe andare avanti con altre decine di esempi, senza distinzione di genere musicale, prestigio dell’artista o destinazione.
Da cosa dipendono questi “incroci musical-geografici”? Principalmente da due dinamiche: da una parte, la tensione esterofila dell’artista, dal’altra, l’attenzione di alcuni operatori stranieri.
Al primo caso appartengono buona parte dei musicisti della scena elettronica, come Bloody Beetroots, le cui produzioni entrano nelle colonne sonore di CSI Miami, o Benny Benassi, che nel 2008 apre il concerto di Madonna all’Olimpico di Roma; ma anche band come i Lacuna Coil, che con l’album Comalies entrano nella Top 200 di Billboard, o i My cat is an alien, duo torinese adottato artisticamente dai Sonic Youth fin dal 1998. Se poi si vira al femminile gli esempi sono Chiara Civello e Roberta Gambarini: rispettivamente da Roma e Torino, approdate a New York per formarsi, prima, e affermarsi, poi, in ambito jazz. E sempre a questo modus appartengono i musicisti classici, ovvero i professori d’orchestra impegnati in filarmoniche, teatri e accademie di tutto il mondo.
Al secondo caso appartengono le “voci” nostrane: da Eros Ramazzotti, che tra il 2009 e il 2010 ha totalizzato oltre cinquanta date nei cinque continenti, a Tiziano Ferro e Laura Pausini, che grazie alle edizioni spagnole dei loro album, sono diventati delle star “di casa” in Sud America. Caso a sé l’Orchestra Italiana di Arbore, capace di chiudere, a suon di musica napoletana, quarantotto soldout nel tour in Cina del 2007.
A spingere le due dinamiche interviene anche un fattore stilistico. È facile intuire che quanti trovano la propria dimensione artistica in generi come il rock più estremo, il jazz, la classica o l’elettronica, entri immediatamente in contatto con forme e tradizioni che hanno casa oltre le Alpi. Quindi, per migliorare la tecnica e trovare spazio sul mercato o nei programmi dei festival, gli artisti sanno di doversi spendere presto all’estero. Al contrario chi tiene il filo della tradizione, fatta di melodia e lingua italiana e tuttalpiù di alcune forme dialettali, verrà chiamato all’estero dai compatrioti emigrati, le cui comunità possono raggiungere migliaia di persone, o appassionati dello stile e della lingua di Dante e dintorni.
Naturalmente questa panoramica conferma alcune tendenze nazionali, ma certo rivela anche delle sorprese. Così artisti capaci di riempire stadi e palazzetti, solo di rado fanno capolino al di là dell’Italia e quasi sempre per operazioni promozionali: Vasco Rossi, su tutti.
La dimensione globalizzata contemporanea e lo strapotere delle major discografiche fa sì che alcuni prodotti musicali si trovino a qualunque latitudine, ma anche in questo l’Italia è, nel bene e nel male, un’outsider. E allora se passando da Bruxelles, il centro fisico e politico dell’Europa Unita, notate un manifesto di Nino D’Angelo, saprete che c’è ancora spazio per la nostra musica.