Intervista a Ivan Quaroni, critico d’arte

Lei è critico d’arte e curatore. Da quali studi proviene?
Ho studiato alla Statale di Milano, facoltà di Lettere e Filosofia, con indirizzo artistico, ma ritengo che la formazione più utile sia stata quella maturata “sul campo”. Mi sono fatto le ossa nell’ambito giornalistico, scrivendo per numerose riviste fino ad ottenere la tessera di pubblicista, ma tra le esperienze più importanti e formative devo indicare uno stage in Mediaset, dove ho lavorato nella redazione cultura e spettacoli, imparando a realizzare in pochissimo tempo i servizi per i telegiornali, e poi il lavoro di redattore di programmi radiofonici in Rai, dove ho lavorato con Claudio Cecchetto e Pierpaolo Peroni. Televisione a parte, ho sempre avuto una grande passione per la letteratura, tanto da seguire la scuola di scrittura di Giuseppe Pontiggia al Teatro Verdi di Milano.

Negli anni ha accompagnato l’attività curatoriale alla collaborazione con importanti riviste di settore come Flash Art. Che cosa pensa del mondo dell’editoria d’arte in Italia e che differenze avverte rispetto a quello degli altri paesi, anche extraeuropei?
L’editoria specializzata in Italia soffre delle stesse storture del sistema artistico. Da noi tutto è polarizzato, diviso in correnti, consorterie, scuole di pensiero. Ho avuto la fortuna di scrivere sia per Flash Art, sia per Arte e devo dire che, per ragioni diverse, costituiscono due palestre importantissime per critici e giornalisti d’arte. Tuttavia, rappresentano anche la radicalizzazione italiana in fatto di arte, la scissione tra un approccio elitario, snob, ed uno divulgativo e popolare. Non so come sia nel resto d’Europa, ma negli Stati Uniti non mi è parso di avvertire questa radicalizzazione di posizioni. In U.S.A. c’è spazio per riviste come Artforum, Art in America e Flash Art International, più legate al sistema artistico dominante e per magazine alternativi come Juxtapoz e Hi Fructose, che documentano le ibridazioni tra arte, illustrazione, fumetto, custom culture e tatuaggio.

Lei collabora con C.A.P.A. [Casa Arcangelo Progetto Arte], un progetto di residenza artistica avviato dall’artista Arcangelo a San Nazzaro (Benevento) nel 2010. In cosa consiste questa residenza?
E’ una residenza unica in Italia per le modalità con cui è stata strutturata. Insieme ad Arcangelo e a sua moglie Margherita abbiamo creato un nuovo modello di residenza basato sulla convivenza e sulla condivisione di ruoli. Gli artisti sono invitati nella casa di campagna dell’artista per una settimana, In questo breve lasso di tempo devono realizzare opere su un tema legato alla storia del territorio beneventano. Sette giorni è il tempo che io ho per scrivere il testo e per realizzare, insieme a Margherita, il catalogo che accompagnerà la mostra finale, che ovviamente viene allestita all’interno delle pareti domestiche, già cariche di una propria storia e di un proprio vissuto. In quella casa, posta sulle colline sopra San Giorgio del Sannio sono passati negli anni numerosi artisti, come Gilberto Zorio, Jaume Plensa, Ronnie Cutrone, Marco Gastini, Piero Pizzi Cannella, Gianni Dessì, Ricardo Brey, Urs Luthi e molti altri. E’ un luogo molto ospitale, che favorisce, in un clima armonico, confronti e discussioni.

Il suo lavoro curatoriale si svolge soprattutto in gallerie d’arte contemporanea. Che momento sta attraversando il sistema dell’arte italiano e quello delle gallerie in particolare?
Il periodo non è dei migliori, i galleristi non fanno che lamentarsi, comprensibilmente. Eppure io vedo che ci sono molti progetti e molta voglia di fare. Questa crisi si combatte anche con una disposizione d’animo aperta al cambiamento. Basta pensare che ogni crisi, pur con tutte le conseguenze negative che essa produce su imprenditori, lavoratori e famiglie, può essere anche un’occasione di riscrivere le regole del gioco.

Recentemente ha pubblicato il volume Italian Newbrow (Giancarlo Politi Editore) in cui ha raccolto le esperienze di alcuni giovani artisti italiani. Qual è il panorama della giovane arte nella nostra nazione?
Italian Newbrow documenta un certo tipo di fermento, legato all’influenza della società liquido-moderna sull’arte e, in particolare sulla pittura italiana. Si tratta di uno scenario che trova antecedenti e paralleli anche in altre culture, penso alla Lowbrow Art americana, al New Folk newyorchese, all’arte giapponese influenzata dai manga e a molte altre situazioni analoghe. Naturalmente, in Italia, ci sono molti scenari diversi e c’è molta arte buona che meriterebbe una maggiore visibilità. C’è una generazione che torna ad esprimersi con una pittura libera e selvaggia, non influenzata dai media e ci sono molte ricerche che hanno superato il bipolarismo tra figurazione e astrazione, ma anche tra pittura e arte concettuale. I giovani hanno capito che la mentalità esclusivista, duale, obbligata a scegliere tra opzioni politiche e culturali contrapposte, ha fatto il suo tempo.

Un consiglio – sia sotto il profilo formativo che prettamente “operativo” – che si sente di suggerire ai giovani curatori e critici d’arte contemporanea italiani? E cosa consiglierebbe a un giovane artista?
Credo che quello del “curatore” sia un mestiere sui generis. Puoi frequentare scuole e masters di ogni tipo, ma è l’esperienza e la disponibilità a imparare e a maturare una propria visione a fare la differenza. Io consiglio ai giovani aspiranti curatori di fare, di sporcarsi le mani, di sbagliare e di non seguire nessuna corrente culturale. Il futuro si costruisce non con quanto hanno già detto e scritto, ma con quanto deve essere ancora conosciuto. Anche in questo momento, ci sono cose che aspettano di essere scoperte, di essere portate alla luce. Se avete amore e passione, le troverete, oppure saranno loro a trovare voi.