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“Le imprese italiane devono crescere”. E’ questa una tra le frasi più citate nei dibattiti economici in Italia degli ultimi anni. La dimensione media dell’impresa italiana è effettivamente minore rispetto agli altri Paesi Europei e, secondo molti, crescere è divenuto indispensabile per rimanere competitivi nelle filiere internazionali. Per questi motivi, la crescita è considerata una notizia positiva e, non a caso, sono molti gli studi empirici che hanno misurato e valutato la performance delle imprese in base al livello di crescita. Tuttavia, oltre a strategie di crescita vincenti esistono situazioni, documentate, in cui le operazioni di crescita comportano una perdita di valore per le imprese: acquisizioni mal ponderate, investimenti con un eccessivo utilizzo della leva finanziaria e strutture organizzative inadeguate allo sviluppo dimensionale sono aspetti che rischiano di peggiorare la performance dell’impresa.
Inoltre, diversi approcci teorici sottolineano come la crescita rappresenti una fase di “instabilità” nella vita aziendale in cui si possono verificare difficoltà e complessità gestionali. Tuttavia, nonostante la presenza di questi fattori potenzialmente negativi, la crescita è spesso considerata in modo “acritico” un fenomeno unicamente positivo. Alcuni, in risposta a questa osservazione, potrebbero sostenere che la crescita sia di per sé un fatto positivo, alla base dello spirito imprenditoriale e necessaria per aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’impresa. Alla luce di tutto ciò diventa rilevante andare oltre a quella che è stata definita da alcuni “growth ideology” (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons, 2009) per aumentare la consapevolezza di quali siano le modalità e i fattori che possono tradurre un percorso di crescita in un fatto positivo per la vita di un’impresa.
Il quadro di riferimento
Il tema della crescita delle Piccole e Medie Imprese (d’ora in avanti PMI) è quanto mai attuale soprattutto nel contesto italiano. È noto che il sistema produttivo italiano si caratterizza per una forte presenza di PMI, molto spesso clusterizzate in distretti industriali e specializzate in settori tradizionalmente considerati maturi (Piore e Sabel, 1984; Becattini et al. 2003). Secondo dati Eurostat in Italia il 94,5% delle imprese ha meno di 9 dipendenti, il 4,9% impiega tra i 10 e i 49 dipendenti, lo 0,5% impiega un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249, mentre solo lo 0,1% delle imprese ha più di 250 dipendenti.
La forte presenza di PMI è tuttavia un dato comune ai maggiori paesi industrializzati. In Germania e Francia per esempio, le imprese fino a 9 dipendenti rappresentano rispettivamente l’83% e il 92,1% mentre le imprese fino a 49 dipendenti rispettivamente il 97,2% e il 98,7% del totale. Pertanto, ciò che differenzia l’Italia è la forte concentrazione di imprese sotto i 49 dipendenti e in particolare sotto i 9 e la conseguente minore presenza di medie e grandi imprese.
Se intendiamo per medie imprese quelle con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249, l’incidenza in Italia è meno della metà rispetto alla media europea e meno di un quarto rispetto alla sola Germania.
Queste caratteristiche hanno iniziato a manifestare tutti i loro limiti in corrispondenza dell’aumento della competizione internazionale nei settori di specializzazione dell’Italia a partire dagli anni Novanta. È infatti in questo periodo che inizia un percorso caratterizzato dall’abbassamento di molte barriere doganali e un più diffuso utilizzo di nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazione.
La cosiddetta globalizzazione e la diffusione dell’information technology hanno favorito l’emergere della competizione dei paesi in via di sviluppo (che possono contare su una dotazione di risorse a “buon mercato”). Questo ha portato con sé minacce alla posizione competitiva delle imprese dei paesi sviluppati ma anche opportunità di internazionalizzazione, di innovazione e “nuovi” modelli di business anche in settori tradizionalmente considerati maturi (Baden-Fuller, 1994; Camuffo et al. 2008). Le trasformazioni dell’ambiente competitivo hanno creato la necessità di un “nuovo” adattamento delle organizzazioni e delle imprese in particolare. Molte ricerche indicano nell’aumento della dimensione media delle imprese uno dei modi attraverso cui mantenere il fit con l’ambiente esterno (Ufficio Studi Mediobanca e Centro Studi Unioncamere, 2010). I dati sulla dimensione media delle imprese italiane non lasciano dubbi sulla necessità di crescere, tuttavia il tema va affrontato mettendone in luce tutte le sue peculiarità.
Un’ideologia della crescita?
Esistono certamente valide ragioni per crescere e per rendere la crescita un percorso profittevole. Alcune tra queste sono (Sicca, 2001; Davidsson, Steffens e Fitzsimmons, 2009): il raggiungimento di una scala minima efficiente tale per cui dal punto di vista produttivo si possano ottenere dei benefici di costo traducibili in una migliore profittabilità; il raggiungimento di una massa critica tale per cui si possa ottenere una posizione di rilievo nel settore di riferimento; l’aumento del potere contrattuale verso clienti e fornitori; la possibilità tramite processi di internazionalizzazione di allargare il mercato di riferimento; economie di scala, di raggio d’azione, di complementarietà, di integrazione manageriale.
Va tuttavia tenuto conto che la crescita è un fenomeno relativo, multidimensionale e complesso e i cui benefici possono talvolta essere controbilanciati da criticità strategiche e difficoltà manageriali. La crescita è un fenomeno relativo in quanto la dimensione di un’impresa si può ritenere appropriata solo in relazione alle caratteristiche del settore di riferimento. Se il settore è popolato da grandi imprese, presenta bassi tassi di crescita e una tecnologia consolidata e stabile, un’impresa
potrebbe non avere una massa critica sufficiente per competere, seppur “grande” secondo i criteri occupazionali.
La crescita è in secondo luogo un fenomeno multi-dimensionale, influenzato da molti fattori e suscettibile di valutazioni diverse tanto sul significato stesso del termine quanto sul concetto di performance ad essa collegato. Le imprese possono crescere facendo ricorso a risorse proprie, di cui già dispongono (crescita organica o per linee interne), o acquisendo risorse di altre imprese attraverso alleanze o acquisizioni (crescita per linee esterne) (Sicca, 2001). Molto spesso sono diverse le ragioni che spiegano l’una o l’altra scelta. La crescita è in terzo luogo un fenomeno complesso caratterizzato da una pluralità di conseguenze.
Quest’ultimo, tra i temi sollevati, sembra quello di maggiore attualità. La crisi manifestatasi a partire dal 2008 e in particolare le sue conseguenze sull’economia reale e sul credito, hanno contributo a rendere evidenti alcuni effetti della crescita, non sempre adeguatamente sottolineati. La stretta creditizia ha riportato all’attualità il tema degli equilibri patrimoniali e finanziari e quindi quello del finanziamento della crescita. Il lungo periodo di tassi relativamente bassi ha incentivato un ricorso (rivelatosi in molti casi) eccessivo alla leva finanziaria. Il finanziamento dei percorsi di crescita esclusivamente attraverso mezzi di terzi rischia di scardinare gli equilibri patrimoniali e finanziari dell’impresa e impone un ritorno (quasi) immediato degli investimenti effettuati.
Un percorso di crescita sollecita inoltre l’equilibrio organizzativo dell’impresa. La crescita dimensionale (indipendentemente dalle modalità con cui è realizzata) impone un contestuale adattamento dei meccanismi di governance, della struttura organizzativa e dei sistemi operativi. In altre parole l’adattamento verso l’esterno (external fit) va accompagnato da un necessario adattamento interno (internal fit) (Milgrom e Roberts, 1995; Siggelkow e Rivkin, 2005). La crescita dimensionale potrebbe infatti mettere in luce l’inadeguatezza dell’attuale struttura organizzativa, la mancanza di adeguate competenze manageriali (per esempio per la creazione di una funzione finanza o di controllo di gestione), e la necessità di rivedere ruoli e meccanismi di coordinamento interni e verso l’esterno.
I percorsi di crescita sono pertanto fonte di incertezza e di “instabilità” organizzative e, alla luce di questo, non è scontato che un percorso di crescita sia associato a effetti positivi sulla performance dell’impresa. Si può quindi dire che crescere è sempre positivo? La risposta a questa domanda non è scontata e non è empiricamente provato che un percorso di crescita comporti un miglioramento delle performance economico-finanziarie.
Sono vari gli autori che evidenziano la mancanza di studi accademici sul legame tra crescita e profittabilità (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons 2009; Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005). Inoltre le poche ricerche empiriche condotte (Cowling,
2004; Roper, 1999; Markman e Gartner, 2002; Levie, 1997; per Cox, Camp e Ensley 2002 e Sexton, Pricer e Nenide 2000 si veda Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005) non evidenziano risultati univoci sulla relazione tra crescita dimensionale e profittabilità. Per questo motivo “the idea of growing in order to become profitable seems a much more questionable prospect” (Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005, p.17).
Il numero limitato di ricerche in questo ambito di analisi può essere spiegato dal fatto che pare esistere un’accettazione comune che la crescita sia un aspetto positivo nella vita di un’impresa, tanto che in diversi contributi la crescita stessa viene indicata come parametro di performance di un’impresa. Scrivono Dobbs e Hamilton (2007, p.297): “…The obvious benefit of growth for business owners is that of an increase return on their investment. Growth is typically equated with high performance and therefore owners stand to gain a monetary return from such developments.” E’ proprio l’ovvietà di cui parlano Dobbs e Hamilton che deve essere messa in discussione per poter meglio comprendere quali siano i fattori e le strategie che possono rendere profittevole la crescita.
Sulla relazione tra crescita e performance
Nel mondo accademico è presente un elevato numero di contributi che hanno provato a descrivere vari aspetti della crescita delle imprese e nel corso degli anni sono state utilizzate prospettive teoriche e approcci molto diversi tra loro. Un primo
approccio è dato dai modelli descrittivi, nati a partire dal contributo di Chandler “Strategy and Structure” (1962). L’approccio descrittivo ha prodotto un grande numero di modelli (Steinmetz, 1969; Scott, 1971; Greiner, 1972; Kroeger, 1974; Churchill e Lewis, 1983; Scott e Bruce, 1987; Hanks, 1990) e tuttora ha grande notorietà per le proprie capacità interpretative del fenomeno della crescita. Questo approccio descrive la vita e la crescita di un’impresa come un ciclo o una serie di stadi tipici che si verificano a seguito di crisi o inefficienze altrettanto tipiche.
Tuttavia, con l’avvenuta consapevolezza che la crescita delle PMI è un fenomeno multidimensionale ed eterogeneo, questi modelli hanno ricevuto varie critiche per la loro pretesa di universalismo e determinismo (Grandinetti e Nassimbeni, 2007)
oltre che per la mancanza di evidenze empiriche sottostanti (Dobbs e Hamilton, 2007). Inoltre, essi tendono a focalizzarsi soltanto sulle dinamiche interne e non prestano attenzione all’impatto di fattori esterni di tipo sociale, economico e
ambientale (McMahon, 1998).
Tenendo a mente i limiti di tale approccio, nei modelli sviluppati si evidenzia la possibile presenza di un trade off tra crescita e performance (Steffens, Davidsson, Fitzsimmons, 2009) in quanto intraprendere un percorso di crescita significa andare
incontro a una serie di sfide manageriali o di cosiddetti “growing pains” (Flamholtz e Randle, 1990) che possono rendere negativo l’effetto della crescita sulla performance. In particolare, nei modelli descrittivi i growing pains sono tipicamente
di carattere organizzativo e la crescita viene talvolta interpretata come una fase di instabilità necessaria per permettere all’impresa di evolversi nel tempo: ogni impresa deve crescere adattando la propria struttura organizzativa, diversamente
rischia di non sopravvivere.
Un altro approccio che studia la crescita è l’approccio evolutivo (Nelson e Winter,2002); in questo approccio la crescita di un’impresa è influenzata dalla continua interazione di fattori interni ed esterni. Le teorie evolutive possono essere divise in due gruppi (Costa e Gubitta, 2004): le teorie basate sulla selezione, quali “Population ecology” e le teorie basate sull’adattamento, i cosiddetti “active learning models”. Le teorie basate sulla selezione si concentrano maggiormente sulle forze esterne all’impresa e si basano sulla teoria della “Population ecology” che vede nella crescita una tra le possibili strategie competitive che permettono la sopravvivenza dell’impresa (Hannan e Freeman, 1989).
Al contrario, le teorie basate sull’adattamento, pur partendo dal presupposto che l’evoluzione sia determinata dall’ambiente esterno, superano i meccanismi di selezione naturale attraverso una maggiore enfasi sugli individui e sulle conoscenze degli attori. Per questo motivo in quest’ambito rientrano i cosiddetti “active learning models” (Rantala, 2006) in cui le probabilità di sopravvivenza dell’impresa aumentano al crescere del “knowledge stock” in possesso degli individui. La crescita è quindi legata alla spinta esterna alla sopravvivenza data dall’ambiente ma è profittevole soltanto grazie alla presenza di meccanismi di apprendimento che consentono all’impresa di sviluppare conoscenze e competenze adeguate. In questo contesto si sottolinea l’importanza della “behavioral continuity” (Nelson e Winter, 2002) per ottenere successo nei percorsi di crescita: comportamenti aziendali persistenti, sistematici che prendono la forma di regole e azioni, ovvero routine. Il legame crescita-performance diventa quindi positivo solo se si è in grado di creare delle strutture di apprendimento.
Infine, un ulteriore approccio è quello basato sulla Resource Based View (Wernerfelt, 1984; Barney, 1991) applicata alla crescita delle imprese; questo Alessandro Rossi, Diego Campagnolo approccio ha origine a partire dal lavoro di Penrose del 1959 (Dobbs e Hamilton, 2007, Kor e Mahoney, 2004; Peteraf e Barney, 2003). Secondo Davidsson, Steffens e Fitzsimmons (2009) la logica della RBV indica che le imprese perseguiranno opportunità di crescita in modo tale da aumentare i vantaggi derivanti dalle proprie risorse VHRN (valuable, hard to copy, rare, non substitutable).
Questo lascia spazio alla possibilità che il percorso di crescita non crei valore quando l’impresa non è in possesso di risorse adeguate per crescere o non aumenta i vantaggi delle proprie risorse distintive. Prima di intraprendere un percorso di
crescita le imprese devono quindi sviluppare un vantaggio competitivo basato sull’identificazione e sulla valorizzazione dell’unicità del set di risorse a loro disposizione. In questo senso, “in most situations it is advantageous to let profitability (and the competitive advantage it reflects) be the horse that pulls the growth cart, rather than the other way around” (Davidsson, Steffens e Fitzsimmons, 2009 p. 400).
La crescita: un mezzo non un fine
Nei paragrafi precedenti abbiamo sottolineato l’esistenza di un possibile trade off tra crescita e performance; non sempre crescere è positivo, così come confermato dalla mancanza di evidenze empiriche univoche sul tema. Piuttosto, ciò che sembra
di fondamentale importanza è la comprensione dei fattori critici di successo di un business: fattori di tipo economico, ambientale, “knowledge-based” o “firm-specific” che possono rappresentare la base sulla quale impostare percorsi di crescita.
L’ideologia della crescita è quindi sbagliata per definizione. Ritenere che crescere sia positivo a priori comporta rischi per l’impresa in termini di profittabilità. Questo aspetto deve incentivare le imprese a non sottovalutare i “costi” della crescita in
favore soltanto degli aspetti positivi: mantenere un forte spirito imprenditoriale domandandosi allo stesso tempo come, quando e soprattutto perché crescere.
Intraprendere percorsi di crescita in assenza di un’adeguata pianificazione strategica, di competenze specifiche e di una corretta attenzione alla sostenibilità organizzativa (oltre che patrimoniale e finanziaria) rischia di portare ad un effetto negativo della crescita sulla performance. La crescita è pertanto un mezzo (e non un fine) da inserire in una visione strategica più ampia, consapevole dell’opportunità e/o necessità di aumentare le dimensioni dell’impresa, nell’ottica di ricercare un vantaggio competitivo sostenibile. La crescita è un mezzo da gestire tenendo in considerazione equilibri di tipo organizzativo-gestionale.
La crescita infatti ha carattere imprenditoriale, perché può prendere avvio dall’intuizione dell’imprenditore, ma ha elementi di managerialità che intervengono nella fase (iniziale) di pianificazione, (contestuale) di attuazione e (successiva) di gestione di un’organizzazione più complessa.
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Articolo redatto in collaborazione con Diego Campagnolo
Nota: questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info