Sfogliando le pagine del rapporto 2010 dell’IFPI – International Federation of the Phonografic Industry, tradotto e fatto proprio dalla FIMI, dal titolo Investing music e dal roboante sottotitolo Come le case discografiche scoprono, fanno crescere e promuovono i talenti vengono in mente le sequenze nelle quali Don Vito Corleone si prodiga per Johnny Fontane, il figlioccio dedito alla carriera nel “music business”.

Al di là di quella che puó apparire come una boutade, la similitudine c’è. La IFPI é una lobby internazionale, in stile americano, come gli Studios, anche se con sede a Zurigo, che rappresenta grandi società, che a loro volta sono parte di altre multinazionali e di fondi di investimento che si occupano di tutto: dall’agroalimentare all’automotive, dall’entertainment ai media. Questo di per sé non é nè un bene nè un male, ma permette di capire che gli autori del rapporto propendono verso le questioni legate al budget, piú che a quelle artistiche. E questo si evince chiaramente dal numero di frasi che fanno riferimento a “quanto spendono” le case discografiche: alla fine si é quasi pronti ad inviargli una donazione, tanto appare lacrimevole il tono…

Ma veniamo ai punti forti (o deboli?) del rapporto.
Anzitutto i primi paragrafi si prodigano a spiegare che gran parte dei ricavi delle società vengono spesi per la ricerca e formazione dei talenti: dichiarano stime intorno al 30%. Il punto é che i gli artisti sono la materia prima delle case disografiche, quindi impiegare un terzo dei ricavi per la loro ricerca significa garantirsi la possibilità di stare sul mercato. Non é filantropia.

Ció detto é necessario aprire una parentesi ‘storica’. Fino all’avvento delle tv musicali, il mercato aveva una sua velocità “naturale”: vi erano gruppi o artisti piú prolifici di altri, ma in generale di musica c’era meno e le canzoni o gli album avevano una vita piú lunga, tanto nei negozi di dischi, nelle radio e nelle testate specializzate, quanto nel cuore e nella memoria del pubblico. Con l’avvento di MTV e omologhi, poi della rete, del file-sharing e infine dei social network – con la funzione di embed – é quadruplicata la velocità. Inoltre, in questi trent’anni, siamo arrivati alla smaterializazione della musica: dal vinile allo streaming. Tutto ció ha messo spalle al muro le case discografiche, che non hanno potuto far altro che inseguire questi giganti.
Ma inseguire i giganti costa, rischiando di rallentare tutto ancora di piú (basti citare la battaglia contro Napster): nessun investitore vuole puntare su un rischio indefinito e siamo quindi passati dallo scouting all’A&R, ovvero dalla ricerca dei talenti alla creazione dei talenti. Peccato che i talenti, come tutti sanno, si coltivano ma non si creano.
Puó apparire un gioco di parole, ma non lo é se tutto viene calato nel tempo dell’investimento: far cresce un artista, presumendo di averne incontrato uno, puó richiedere anni; ma se viene creato ad hoc, il tempo diventa una variabile controllata. In entrambe le situazioni il denaro investito puó essere moltissimo, ma nel primo caso é difficile stabilire la soglia, mentre nel secondo é fissata da subito. 
Questo le major lo hanno imparato negli anni Novanta, sulla scorta dei risultati osservati sul pubblico ogni qual volta sono stati somministrati i ‘tormentoni’. Certo, i brani di successo sono sempre esistiti, ma solo da un certo punto in poi quel successo ha smesso di essere determinato dal basso. Ed anche qui la logica ha iniziato ad essere prettamente economica, ovvero: il brano ai vertici delle classifiche (di vendita) non puó essere altro se non quello frutto delle scelte degli investitori.

Quanto detto porta a chiedersi di chi é la musica: di chi la scrive, di chi la suona, di chi finanzia o di chi la compra? I vari ordinamenti che si occupano di diritto d’autore e di edizioni, rispondono che é un po’ di tutti, o almeno di tutti quelli che si mettono d’accordo. Chi scrive ha bisogno di chi suona (e registra e mixa – produttori, arrangiatori, tournisti…) ed entrambi di qualcuno che creda in loro e gli garantisca di che vivere e possibilmente gli permetta di raggiungere un certo grado di notorietà. Questi tre poi dipendono dal pubblico, ossia chi acquista la musica: brani, dischi, biglietti di concerti, ma anche suonerie, colonne sonore, etc etc. Tuttavia é chiaro che al centro restano gli investitori, ovvero la IFPI e le sue consociate.

Le discografiche peró sono prese d’assedio: da una parte c’è internet, la sua cultura del free e la grande diffusione di strumenti sempre piú professionali per registrare anche a casa; dall’altra i costi sempre piú alti delle produzioni, della promozione e la drastica riduzione degli introiti. Questo ha obbligato le major a richiedere percentuali anche dai live. Una quota dei biglietti dei grandi concerti cui avete assistito negli ultimi dieci anni sono andati alle discografiche, che agonizzano sulle infinite ristampe dei sempre verdi cataloghi: la mega-platinum raccolta dei Beatles, la gold-limited di Elvis e la diamond-premium di Mina sono porti sicuro tra le onde dell’oceano discografico.
I concerti infatti sono la cartina di tornasole della musica. Lí il gap tra l’artista ed il pubblico diventa molto piccolo ed é in virtú di questa relazione piú stretta che siamo disposti a spendere decine e anche centinaia di euro, cosa che difficilmente facciamo per i dischi, qualunque supporto esso abbia. Dal vivo emerge la verità, almeno per chi la sa vedere. E con questo arriviamo al fondo.

Il panorama descritto dal rapporto del IFIP non è fasullo, ma quantomeno parziale, anche perché tolte Universal, Warner e Sony il mondo è fatto di centinaia di etichette – dalle molto grandi alle molto piccole – con scuderie non superiori ai venti artisti, ma capaci di conquistare quote di mercato e pubblici importanti, grazie ad un lavoro costante che solo la passione può sospingere. E poi ci sono gli store digitali e il variegato mondo dei concerti, che con i suoi “banchetti” è diventato una fonte di reddito fondamentale per i musicisti e i loro staff.

Mi piacerebbe che un giorno le grandi case discografiche la smettessero di rifilare junkmusic, confezionata da abili ingegneri del suono, e tornassero ad investire sul serio, dando fiducia agli artisti, per quanto indomiti (e i musicisti lo sono quasi sempre), piú che ai responsabili marketing o ai pubblicitari. Senza peró decapitare i cavalli di questi ultimi.