Una scritta verde sul fondo del palco “Sturm und Drang”, è parte dell’accalcarsi di graffiti a tinte dirompenti che delimitano lo spazio scenico definito da due giovani writers Paolo Colasanti e Leonardo Maltese. In terra, sabbia, su cui poggiano un tavolo di legno e una serie di pali geometricamente disposti, ora ostacolo, ora scappatoia, ora alberi di foreste .
E’ una scenografa minimale e potente quella scelta per questo spettacolo di Gabriele Lavia al Teatro India di Roma che fa vivere Schiller, la sua energia, il suo dramma in una cornice contemporanea.
Sono 20 gli attori coinvolti i Masnadieri sono belli e maledetti, con i capelli scompigliati, cappotti di pelle nera e cappello; occupano lo spazio catalizzando l’attenzione dello spettatore e alternano le armi alle chitarre elettriche quando bivaccano dopo i loro misfatti.

Una storia drammatica, cruda, quella dell’opera emblema dello Sturm und Drang, (Tempesta e Assalto) del fallimento degli eroi che in nome della libertà e dei grandi ideali preferiscono la morte: qui gli ideali crollano, vacillano, la morte è un’alternativa non scelta,ma imposta dal tormento interiore, evidente in ognuno dei personaggi che spiegano le irrequiete logiche della loro mente nei loro ricorrenti monologhi individuali.
Il richiamo alle shakespeariane trame rimbomba in testa: Franz è il figlio storpio, cresciuto e corroso dall’invidia per Karl, l’eroe, il figlio prediletto, amato da Amalia.
Franz ha molte ragioni per avercela con la natura e le dichiara al pubblico: la natura lo ha utilizzato per comporre le forme del suo corpo solo qualche rimasuglio, ha dato a tutti l’inventiva, ma ha lasciato tutti sulla riva del fiume..chi non sa nuotare vada pure a fondo. A lui per nuotare, per essere il padrone che salta a cavallo le siepi che proteggono il proprio campo servirà la forza, la cattiveria.
Karl è quello ripugnato dal suo secolo fatto da uomini ben lontani dalle vite parallele di Plutarco e affidato agli imbrattacarte, l’ardente scintilla di Prometeo si è spenta dice.
Riconosce la perfida scrittura del fratello nella lettera che gli annuncia che il padre non lo vuole di ritorno da Lipsia e che è disconosciuto, ma non lotta per la verità, sceglie di reprimere i suoi sentimenti nobili, la sua conoscenza dell’amore assoluto a cui ha avuto il dono di accostarsi tramite Amalia e diventa capo di una banda di incendiari, assassini, i Masnadieri.
Il vecchio padre sarà colui che viene condannato da Franz alla morte più dolorosa, quella che arriva condotta dal tormento e dal rimorso, scelti scientemente da Franz come condottieri perchè i più affidabili per garantire una struggente distruzione della vita.
Amalia ha anche lei una chitarra, come i Masnadieri, è la purezza, l’amore senza condizioni, la lucidità di riconoscere la malvagità in Franz e la forza, liberatrice, di far esplodere tutta la sua rabbia in una canzone ossessiva che recita “Maledetti voi” con cui accoglie Franz ogni volta che viscidamente cerca di avvicinarla, è il testimone di potere che Franz non riuscirà mai a stringere.

Nessun personaggio esce vincitore, perdono tutti, per nessuno c’è redenzione, ritrovamento del bene.
La donna del Capitano Karl muore per mano del capitano. Quello stesso capitano che prova all’ultimo a dare un senso alla propria morte, non essendo riuscito a darlo alla propria vita. 
Sorprendente l’interpretazione di Francesco Bonomo, Franz, che riesce a giocare con il suo corpo, a renderlo mostruosamente elastico: si sdraia, salta sul tavolo, corre tra i pali e salta sulla bara del vecchio padre senza mai mostrare un momento di cedimento, perfettamente imprigionato nel suo ruolo di storpio.
La parola d’ordine dello spettacolo è ritmo, sempre incalzante, che blocca l’aria quando ci sono i monologhi intimi dei singoli personaggi con il pubblico, che si avvale per restare vivo (cala leggermente  solo all’inizio del secondo atto) anche della musica suonata rigorosamente in scena dagli attori.
La parola d’ordine agli spettatori è incalcolabile distanza… quella che anche oggi hanno le vite parallele degli uomini nobili di Plutarco dai nostri “sovrani”.