Dimenticare con facilità e negligenza. È questa la peculiarità che si ripete ogni qual volta una catastrofe naturale colpisce qualche zona del Bel paese. Dimenticano i cittadini perché travolti dalla quotidianità e dalla frenesia  lavorativa; dimenticano i politici, perché spesso è bene non rimarcare colpe di cui dovrebbero essere i primi responsabili; dimenticano i media, perché dopo l’emotività iniziale la catastrofe non fa più notizia. E così nell’amnesia collettiva e generalizzata può succedere che a Genova appena un mese dopo l’ondata di fango che ha travolto case, strade, interi quartieri e si è portata via con sé la vita di sei persone, la giunta comunale stesse discutendo sulla possibilità di costruire un outlet in piena zona rossa, ovverosia in quella che è considerata l’area più a rischio allagamenti. Il progetto, come racconta sul Fatto Quotidiano Ferruccio Sansa, era già nell’aria prima della terribile alluvione del 25 ottobre. Tuttavia i morti, paesi interi cancellati, ondate di piena di fiumi straripati dagli argini, non sembrano essere stati sufficienti per accantonare la proposta. Solo lo scorso 6 dicembre la giunta regionale ligure ha approvato una delibera per bloccare per un periodo di 45 giorni i progetti già autorizzati, al fine di eseguire nuovamente tutti i controlli per avallare o ripensare i prospetti urbanistici.
Il “partito del cemento”, definizione dello stesso Sansa, non si ferma facilmente. Non solo a Genova, bensì in tutta la penisola, con l’appoggio indifferenziato di partiti di destra e di sinistra, continua per la sua strada incurante di vincoli naturali, idrogeologici, paesaggistici e della fragilità del territorio. Spesso si tratta di abusivismo palese, altre volte invece si costruisce rispettando appieno le regole edilizie, le quali spesso proprio perché dettate dall’uomo non sembrano essere le più sensate. C’è chi costruisce per necessità o chi edifica per speculare. Ed una volta tirato su un palazzo, un parcheggio, una piscina, se proprio lo si è fatto abusivamente basta aspettare il prossimo condono che di solito non tarda ad arrivare. Eppure gli strumenti di prevenzione e di denuncia sono sempre più numerosi: Legambiente annualmente fotografa lo stato dell’abusivismo edilizio e le zone a rischio idrogeologico. Secondo il rapporto “Ecosistema a rischio”, nel 2010 i comuni a pericolo frane e esondazioni erano 82 su 100. Qui case, abitazioni e spesso anche strutture pubbliche sono sorte in prossimità di alvei di fiumi o in aree franose. Una situazione grave e preoccupante, tanto che il neo ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha pensato che l’unica soluzione possa essere quella di spostare famiglie che risiedono nelle zone più pericolose e  di svuotare interi quartieri e paesi. Delocalizzare i cittadini, abbattere interi borghi e ricostruire in spazi più sicuri. Una proposta i cui intenti sono meritevoli, ma non sufficienti. La soluzione infatti, per quanto ha incassato il plauso di Legambiente, WWF, ambientalisti e geologi, è difficile da attuare se non altro in un paese in cui non si riesce neanche a demolire una villetta abusiva. E dove non è ancora stato applicato il tanto celebrato piano straordinario per il dissesto idrogeologico che prevedeva uno stanziamento di 2 miliardi e 21 milioni, sia nazionali che regionali, destinati alla messa in sicurezza delle zone più a rischio. Fondi rimasti bloccati e mai spesi. Un fallimento che si affianca ad un taglio dell’84,8% dei finanziamenti ordinari per prevenire il dissesto idrogeologico. Come se non bastasse la CGIA di Mestre (Associazione artigiani piccole imprese) ha rilevato che il 99% dei proventi della cosiddetta tassa verde (tutte quelle accise che gravano sulle emissioni inquinanti e che poi dovrebbero essere reinvestite nella protezione ambientale) viene impiegato in altre voci di spesa che non riguardano la tutela del territorio. Negli ultimi dieci anni a fronte di 717 miliardi e 442 milioni incassati dalle “imposte ecologiche”, solo 6 miliardi sono stati investiti nella protezione ambientale.

E mentre i soldi mancano, le costruzioni abbondano. E quasi nessuna viene abbattuta. L’abusivismo edilizio continua ad essere perpetrato senza incontrare grandi resistenze. Il rapporto “Ecomafia 2011” stilato da Legambiente riporta che gli interventi di abuso edilizio perpetrati nel 2010 sono circa 26.500, in cui sono compresi ampliamenti di superficie e cambi di destinazione d’uso. Non solo l’edificazione selvaggia sembra inarrestabile, ma tutto ciò che dovrebbe essere rimosso in realtà rimane esattamente dov’è. Il caso più eclatante è quello delle abitazioni alle pendici del Vesuvio. Sebbene un censimento ufficiale non esista, secondo una stima approssimativa sarebbero circa 10mila gli edifici nati a pochi metri dal cratere. Il tutto, senza tenere conto della difficoltà di evacuare queste famiglie in caso di eruzione. L’unico progetto di messa in sicurezza risale a cinque anni fa: denominato “Vesuvia”, il piano aveva come obiettivo quello di spostare 61mila persone entro il 2013 dalla zona rossa incentivando, con un finanziamento di 25 mila euro, l’acquisto di case lontano dalla zona a rischio. Eppure, invece di diminuire la popolazione in queste aree è aumentata e solo 5 mila persone hanno deciso di cambiare residenza. Nel gennaio di quest’anno la regione Campania ha votato un emendamento all’articolo 5 della legge regionale 10 dicembre 2003 n.21, esattamente quello che sanciva il divieto di rilascio di titoli edilizi nella zona rossa. Il che non dovrebbe stupire in una delle regioni italiane dove, negli ultimi 10 anni, sono nate 60mila abitazioni abusive. E dove si era profilata la possibilità che la Giunta provinciale rivedesse il PTCP (Piano Territoriale coordinamento provinciale) che una volta riaperto avrebbe reso possibile il raddoppio delle costruzioni presenti nelle aree limitrofe alla zona rossa. “Piani di evacuazione non bastano. Bisognerebbe lavorare su quelle dinamiche che causano l’aumento dell’antropizzazione nelle zone costiere” Giuseppe Russo capogruppo del PD nella Regione Campania è consapevole che il fenomeno della speculazione edilizia nasce a causa di flussi migratori della popolazione costretta a spostarsi alla ricerca di occupazione. Una migrazione quindi dettata dalla necessità di trovare un posto di lavoro, sempre più raro nell’entroterra campano. Una considerazione che vale non solo per il territorio partenopeo. Se l’esempio campano, può sembrare estremo e circoscritto, a riprova della diffusione del problema basta ricordare quanto è accaduto a Roma durante il nubifragio dello scorso 20 ottobre. Interi quartieri che sorgono nell’entroterra a ridosso di Ostia, sono rimasti letteralmente assediati dall’acqua. Anche in questo caso di tratta di edifici nati come abusivi negli anni ‘70 e di volta in volta condonati. In diverse aree sono stati gli stessi residenti a costruire con le proprie mani queste abitazioni, non tenendo conto del pericolo che correvano in un territorio che si trova al di sotto del livello del mare.
Solo alcuni esempi di una proliferazione edilizia sconsiderata di cui purtroppo si parla solo quando le cronache portano alla ribalta le conseguenze più nefaste. E, tra un episodio e l’altro, si ricade di nuovo nell’oblio.