Già solo dalla modalità di presentazione si può entrare in quello che è il personaggio di Luigi Ontani, artista emiliano, vegetariano e pacifista, come ama definirsi. Vestito con un completo di sartoria, tinta unita rosso carminio, e portando davanti al volto un’enorme maschera decorata di artigianato baliniano, fa la sua comparsa nella sala sotterranea di Sala Borsa, biblioteca civica di Bologna, e prende posto accanto al critico d’arte Renato Barilli,  nocchiere, per una sera, del viaggio attraverso gli oceani dell’attività dell’artista.

L’incontro è stato offerto al pubblico cittadino e ai frequentatori di Arte Fiera sulle orme del grande successo di quello organizzato l’anno scorso, sempre il 27 gennaio, con Marina Abramovic, regina della performance, che commentava il suo ultimo lavoro, Seven Easy Peaces, facendo il tutto esaurito.
Un legame forte tra i due artisti c’è: entrambi furono invitati alla storica Settimana Internazionale della Performance, svoltasi nel 1977, negli spazi della GAM di Bologna. Quindi si tratta di Performance, ma in due direzioni completamente diverse: la Abramovic agisce in nome dell’Act different, Ontani del Be different.

Barilli definisce le operazioni del conterraneo come Performance vestite, dove l’abito, il trucco ed i ninnoli si fanno portatori di diverse identità, mescolando segni e simboli in una dimensione ludica di trovate ingegnose ed ironiche. Artista nato “povero”, formatosi a contatto con Pier Paolo Calzolari, dalla fine degli anni ‘60 sceglie la via del colore e della fantasia, utilizzando diversi mezzi espressivi, dalla scultura alla fotografia, al video, girando filmini in super8 già dal ’69, in concomitanza ai primissimi esperimenti di video arte di Nam June Paik.

Erede del Duchamp in versione femminile, l’artista affronta la tematica dell’identità e del trasformismo, con un copioso ricorso alla citazione, manipolando parole e immagini secondo un gusto decisamente eccentrico. Il soggetto principale delle sue opere è sempre lui, Ontani, novello Narciso, mosso da grande venerazione verso il proprio corpo, che diventa tuttavia un po’ il nostro punto di riferimento, per non perderci nei suoi continui cambi di abito. La sua è un’esplorazione spazio-temporale a 360 gradi, percorrendo i grandi capolavori della storia dell’arte e della letteratura, immergendosi nel folclore e nella mitologia, calandosi nei costumi e nelle divinità di civiltà extra-occidentali. Saltellando leggero dal San Sebastiano di Guido Reni al Pinocchio di Collodi, agli dei dell’India, Ontani gioca con se stesso, con la propria pelle, passando di travestimento in travestimento e trasformandosi egli stesso in oggetto artistico. Questa volontà quasi dannunziana di fare della propria vita un’opera d’arte, subisce un potenziamento nei tableaux vivants, nei quali anche la dimensione performativa viene proiettata in un altrove.

Il primo risale al 1974, svoltosi nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma per la rassegna Contemporanea, nel quale si cala nei panni di Tarzan, leggendo un libro sullo sfondo di alberi e liane; invece nel 1975 in occasione della sua prima visita negli Stati Uniti, a New York, si traveste da Cristoforo Colombo con un prezioso abito dell’Atelier Tirelli, e viene immortalato sorridente al Columbus Circle, accanto alla lapide che gli italiani residenti in America avevano dedicato all’esploratore.

 Tutto questo potrebbe essere visibile alla collettività in una Fondazione Ontani sostenuta dalla Fondazione Carisbo, segreto svelato dal critico durante la serata, spiazzando tutti, artista compreso, che probabilmente l’aveva detto all’amico in confidenza. Possibili location? Probabilmente la Rocchetta Mattei, castello ottocentesco, acquisito dalla fondazione bolognese nel 2006 e chiuso per restauri.  Dopo un incontro durato due ore abbondanti, tra i video, le foto, indiscrezioni ed il battibeccare amichevole dei due protagonisti, viene spontanea una domanda: ma chi è quindi Ontani? Assumendo su di sé molteplici altrui, è tutti e nessuno; o forse la somma delle sue icone è il suo stesso volto. Quello che è chiaro è un grande senso di libertà giocosa e divertita, una dimensione infantile mai abbandonata, coniugata ad una ritualità sacra di matrice orientale, assorbita nei suoi viaggi in India e a Bali. Questa miscela con la quale condisce le sue trasformazioni lo rende un gender bender sui generis, sul limite tra vero e fittizio, in cui gli involucri di sete e stoffe diventano un prolungamento del suo corpo. Si dice che l’abito non fa il monaco. O forse si?