Nei corridoi del Parlamento si sta discutendo una nuova legge elettorale, visto che ormai tutti sono d’accordo sul fatto che quella vigente è pessima, antidemocratica e forse incostituzionale.
Dopo la sentenza di inammissibilità dei referendum abrogatori emessa dalla Corte Costituzionale il 12 gennaio la legge elettorale vigente può essere modificata unicamente dal Parlamento. Il problema è che al potere costituzionale del Parlamento non corrisponde una legittimità sostanziale. La composizione del Parlamento, infatti, non è altro che il prodotto della legge antidemocratica da abolire.
Come può l’attuale Parlamento composto da nominati, non scelti dal popolo sovrano ma dalle segreterie dei partiti, non selezionati per le loro capacità, ma per la loro sudditanza a chi li ha designati, decidere la legge con la quale dovrà essere eletto il prossimo Parlamento? Il rischio è che il primo obiettivo perseguito sia la rielezione degli stessi deputati e senatori o quantomeno la tutela del potere di nomina dei partiti.  Il conflitto di interessi è palese. La logica vorrebbe che il Palamento al massimo fosse legittimato a fare una proposta di legge e sottoporla alla ratifica del popolo sovrano ma, come sappiamo, la Costituzione non pone queste condizioni.

Fatta questa necessaria premessa, quali sono le opzioni concrete tra cui scegliere?
Semplificando al massimo, la legge elettorale (che insieme al referendum è il principale strumento  in mano al popolo sovrano per l’esercizio del suo potere) può essere: maggioritaria (in linea di massima uninominale, a maggioranza relativa o a doppio turno), proporzionale di lista (in circoscrizioni grandi), di ripartizione senza liste (in circoscrizioni piccole) o mista.
Esistono leggi maggioritarie plurinominali e addirittura di lista, ma le possiamo subito ignorare. Il maggioritario uninominale di gran lunga più perfetto, più efficiente, più trasparente, più libero e più competitivo è il doppio turno, promosso da numerosi esperti e da varie forze politiche. Il maggioritario “secco”, al contrario, non è autosufficiente; necessita primarie aperte obbligatorie per rimanere democratico e non diventare partitocratico.

Il voto proporzionale di lista può essere a lista bloccata (o semi-bloccata, ma cambia poco) o a lista libera. Il voto proporzionale di lista è nato alla fine dell’ottocento nei cantoni svizzeri come voto di lista libera. Si tratta del sistema tuttora in vigore per le elezioni federali: i candidati si presentano su liste (di partito), gli elettori votano esclusivamente singoli candidati (eventualmente con voti cumulativi e senza dover rispettare la divisione fra partiti), ma i conteggi e le assegnazioni dei seggi si fanno prima per liste, poi per candidati. Pochi paesi hanno seguito l’esempio della Svizzera. Tutte le leggi elettorali degli altri paesi che hanno scelto il sistema proporzionale di lista sono delle pessime copie del modello originale, rozze e rigide, fatte dai partiti per i partiti. L’unica eccezione era il voto di lista con preferenze, utilizzato in Italia fino al 1993, che con un metodo diverso produce lo stesso risultato della lista libera. Purtroppo il paese ha dimostrato di non essere capace di gestire tale strumento, permettendo che dei principi sani (la scelta diretta dei parlamentari) si piegassero troppo facilmente agli abusi (i “clientelismi”) dei soliti furbi e prepotenti.
Esistono anche dei sistemi che non sono né maggioritari, né di lista: in Irlanda è in vigore da cento anni un sistema elettorale di ripartizione dei seggi in piccoli collegi da tre a cinque deputati; si tratta di un compromesso perfetto fra voto individuale di singoli candidati e ripartizione dei seggi, senza ricorso a delle liste. La competizione è aperta ai candidati di partito come agli indipendenti; la ripartizione si fa in funzione alla libera associazione delle preferenze decise dagli elettori. Il sistema irlandese è il più libero e il più flessibile: non ostacola l’accesso di candidati individuali, lascia la scelta agli elettori, non garantisce il monopolio dei partiti e consente di dosare la rappresentanza delle minoranze tramite la dimensione dei collegi.

Esistono infine, per chi non sa scegliere, i sistemi misti. Di solito si tratta di pasticci che sommano i difetti dei metodi combinati e creano due classi di deputati: una eletta in un modo e l’altra nominata con liste bloccate. La seconda classe comanda sempre sulla prima e questa, in fondo, è la  vera ragione per cui tali sistemi vengono adottati. Spesso c’è un elemento di inganno che mira a fare credere all’elettore ingenuo che si voti per una cosa quando in realtà si sta votando per un’altra: questo vale in particolare per il sistema tedesco (ultraproporzionale e ultrapartitocratico) che spaccia il così detto “primo voto”, il voto per il candidato, per quello importante, quando in realtà conta quasi solo il “secondo voto”, per il partito. La caratteristica peggiore dei sistemi misti è la loro complessità. La complessità è un grosso problema di democraticità, di trasparenza e di efficienza di qualsiasi sistema elettorale, non perché la maggior parte degli elettori è impreparata, ma perché proprio gli elettori più preparati, che alla fine influenzano anche gli altri, hanno difficoltà a determinare la loro scelta, essendo il risultato difficilmente prevedibile. Le complicazioni del sistema permettono, o servono, sempre a manipolare il processo elettorale e a creare risultati certi a priori, indipendenti dalla volontà degli elettori.

In conclusione, i sistemi auspicabili – poiché lasciano libera scelta dei rappresentanti agli elettori, lasciano nuovi concorrenti accedere liberamente alla competizione elettorale, ammettono le minoranze alla rappresentanza senza però compromettere l’efficienza decisionale del Parlamento – sono  quello irlandese di ripartizione con voto trasferibile in piccoli collegi e l’uninominale a doppio turno francese.  Tenuto conto della composizione del Parlamento attuale e della storia elettorale più recente, forse l’unico dei due che l’Italia si può permettere è il secondo: il doppio turno. Senza aggiunte, senza complicazioni, senza eccezioni. Qualsiasi complicazione sarebbe sospetta.

L’articolo 71 comma 2 della Costituzione sancisce il diritto di iniziativa permettendo a un minimo di 50.000 cittadini di formulare un progetto di legge redatto in articoli e presentarlo, insieme a una relazione che illustri scopi e caratteristiche, alle camere. È evidente che un’iniziativa del genere andrebbe promossa da un comitato analogo al CoReCU.

Il contenuto potrebbe essere: primo, la proposta di una legge elettorale maggioritaria uninominale a doppio turno, e secondo, la non rieleggibilità dei parlamentari delle camere uscenti. Appoggiata da numerose firme, anche se non fosse accolta e non avesse un effetto diretto, avrebbe sicuramente un suo peso nel processo di scelta della nuova legge elettorale.
Per garantire democrazia e governabilità una buona legge elettorale è indispensabile ma purtroppo non basta. Occorre senz’altro anche una regolamentazione più adeguata dei partiti e un potenziamento dell’esecutivo.

 

Henri Schmit è nato il 22 gennaio 1955 a Lussemburgo e laureato in filosofia alla Sorbonne e in giurisprudenza alla facoltà di legge di Parigi. Vive dal 1989 a Milano, dove opera nel settore finanziario, ultimamente come consulente indipendente. Sta lavorando a una monografia sui sistemi elettorali.