Quando si discute di immigrazione, soprattutto in connessione con il tema del lavoro, si finisce per ragionare spesso per stereotipi e idee preconcette.
Basterebbe però tenere sottomano alcune cifre fornite dall’INPS, dall’ISTAT o i dossier di alcune fondazioni quali Ethnoland, per rendersi conto di come la realtà sia molto più eterogenea e le idee aprioristiche siano invece decisamente ingenerose verso quella che è ormai una fetta importante tanto del nostro paese che della nostra forza lavoro.
Una rapida panoramica tra alcuni dei numeri più significativi contribuisce ad evidenziare le coordinate oggettive della questione: in Italia sono presenti circa 5 milioni di immigrati regolari, praticamente il 6,5% della popolazione (con una forte tendenza ad aumentare).
L’Istat oltretutto ci fornisce alcune proiezioni secondo le quali verso metà secolo saranno abbondantemente più che raddoppiati numericamente.
Questa forte presenza contribuisce per una percentuale vicina al 12% al nostro PIL, il che vuol dire che parliamo di una cifra annuale di fatturato di circa 165 miliardi di euro.

Non solo: gran parte di questi 5 milioni di persone lavora, ma rappresenta addirittura il 7,9% dei contribuenti totali, il che non è affatto sgradito alle casse dello Stato se consideriamo che in Italia, visto anche il forte e costante invecchiamento della popolazione, 23 milioni di occupati devono produrre la ricchezza per gli altri 37 milioni di residenti, inclusi quelli in età lavorativa ma inattivi, e il sistema pensionistico regge anche grazie agli oltre 7 miliardi annui di contributi pensionistici pagati dagli immigrati.
Si evidenzia spesso la forte spesa che lo Stato deve sostenere in conseguenza del fenomeno dell’immigrazione. Andrebbe altresì considerato anche un dato abbastanza di facile evidenza quale è il saldo tra i versamenti degli immigrati all’erario e le spese pubbliche sostenute a loro favore. Questo infatti è largamente in attivo per l’erario, per più di un miliardo e mezzo di euro.
Gli immigrati non sono una categoria che si differenzia solo per origine, lingua e cultura ma anche molto variegata sul piano economico e per settore produttivo di appartenenza.
Alcuni dei settori di impiego non sono di immediata intuizione come altri,quali ad esempio il lavoro autonomo o la scelta di fare impresa.
Riguardo la prima tipologia va sottolineato come la scelta del lavoro autonomo possa assumere più valenze: una sicuramente funzionale, in quanto strategia di auto-impiego, una di rivalsa, emancipatoria, sintomatica della volontà di riscatto esistente, e, infine, una spesso pratica e coatta, caldeggiata da datori di lavoro poco propensi ad una regolare assunzione e che quindi mascherano come autonomo un lavoro in realtà subordinato.
Le imprese aperte da immigrati sono veramente un numero notevole e in continua crescita, si pensi al dato a disposizione per il 2008: circa 170.000 imprese con titolari immigrati (il triplo rispetto a soli 5 anni prima). La cifra è resa ancor più sostanziosa dalla considerazione delle difficoltà ulteriori che spesso deve affrontare un immigrato per tentare il percorso della libera impresa.
Sempre per lasciare la valutazione a considerazioni numeriche e non di merito si pensi che queste impreso offrono uno sbocco occupazionale ad almeno 500.000 persone e danno un contributo al sistema Italia pari all’11% del Pil.
Diventa evidente come a tracciare il quadro della situazione sia l’evidenza empirica dei numeri più che una qualsivoglia lettura ideologica.
L’entità del fenomeno è enorme. E in crescita.
Non è più una scelta politica gestire il flusso e la situazione esistente ma diventa una questione di opportunità economica e di necessità strutturale canalizzare questo enorme potenziale di risorse nella direzione migliore.