Intervista a Dobrila Denegri, direttrice artistica del CoCA di Torun

In una recente intervista ti sei definita “dalle esperienze nomadi”: origine serbo-croata, base a Roma, ora in Polonia alla Direzione Artistica del Centro di Arte Contemporanea di Torun, progetti di respiro internazionale. Che valore ha il tuo nomadismo nella tua professione di storica dell’arte-curatrice?  
Nomadismo… è una condizione nella quale mi sono trovata, che non è stata sempre una scelta, ma che ho sempre vissuto come uno stimolo.
La dissoluzione della Jugoslavia e conflitti etnici hanno lasciato un segno forte su tutti noi, imponendoci non solo interrogativi sull’identità e l’appartenenza culturale, ma soprattutto di revisione delle motivazioni per continuare a impegnarsi nel campo della cultura e dell’arte.
Con le mie esperienze credo di aver cercato e cerco punti d’apertura: a Belgrado l’ho fatto attraverso “Real Presence” – un grande programma dedicato alle generazioni emergenti, mentre a Roma coinvolgendo alcuni tra i protagonisti più significativi della scena internazionale nei progetti realizzati a MACRO.
Sto cercando di incanalare queste diverse esperienze in un progetto istituzionale strutturato che sta decollando ora in Polonia con il Centro di Arte Contemporanea a Torun. La particolarità del Centro sta nel fatto che è il primo dopo il 1939 in Polonia ad essere appositamente costruito per accogliere l’arte e le altre espressioni contemporanee. Inoltre è situato in una città storica, protetta dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità, famosa non solo per la sua autentica architettura gotica, ma soprattutto per essere la città natale di Copernico, di cui porta il nome anche il grande complesso universitario. Per una città che ha appena compiuto 777 anni il Centro per l’arte contemporanea rappresenta la prospettiva del futuro, che vorrei essere quello di apertura e collegamento con altre realtà, dentro e fuori dei confini nazionali. 

“Real Presence” è  fra i grandi progetti a tua cura: dieci anni di laboratorio per giovani artisti emergenti, a sua volta nomade, ma con uno sguardo alla Serbia.
Che storia avete scritto tu e Biljana con la vostra “concreta presenza”? Perché scommettere sui linguaggi contemporanei e la cultura per uscire dall’isolamento e mettersi alle spalle la guerra? E poi…c
osa ha funzionato,cosa non ha funzionato, come vi siete organizzate? Chi sono stati i vostri interlocutori e che riscontro sul territorio?
Dovendo riassumere cosa sia stata l’esperienza di “Real Presence” in alcune parole direi: moltitudine, coesistenza, inclusione…
Dovendola riassumere attraverso i numeri invece, sarebbero: 10 anni, 1640 partecipanti, provenienti da 110 accademie d’arte da 49 paesi, più ospiti speciali come Harald Szeemann, che aveva aperto la prima edizione nel 2001, nonché Luciano Fabro, Thomas Byerle, Haimo Zobernig, Tobias Rehberger, Victoria Vesna, Angela Vettese, Adam Budak, tra tanti artisti e curatori che ne hanno fatto parte. Ma alcuni nomi e numeri non bastano per rendere conto di quello che questa manifestazione effettivamente è stata per l’enorme quantità e diversità di opere presentate, realizzate o esposte, per la quantità ancora maggiore di conferenze o di progetti collaborativi che sono nati con “Real Presence”, e in fondo per la quantità di idee e stimoli che gli artisti hanno scambiato.
Questo progetto non era nato su alcun presupposto tematico o curatoriale: era nato da una urgenza, da un forte senso di necessità di superamento della chiusura e isolamento culturale che la guerra sul territorio della ex Jugoslavia ha portato dal inizio degli anni ’90. Quindi “reale presenza” rappresentava un invito ai giovani artisti provenienti da diversi contesti culturali a venire a Belgrado, oltrepassando così molteplici confini, sia  fisici, geografici che quelli mentali. Col tempo però questo workshop si è trasformato in una vera piattaforma multiculturale che ha permesso agli artisti emergenti di interagire con diverse altre realtà che costituiscono il sistema dell’arte, come le grandi manifestazioni tipo Biennale di Venezia (nel 2005 e 2009), o quella di Istanbul (2007), musei come il Castello di Rivoli (2008) e soprattutto gli ha dato un input a costruire un loro “sistema” di contatti e collaborazioni che ora cominciano a funzionare come l’alternativa al circuito degli spazi istituzionalizzati.
Quando abbiamo iniziato nel 2001, eravamo in due, con due telefoni e un computer. Ma quello che veramente ha permesso a questa iniziativa di prendere corpo è stata una densa storia di incontri, amicizie e collaborazioni che Biljana Tomic ha portato avanti dagli anni ’60 in poi, presentando a Belgrado i maggiori protagonisti delle neoavanguardie, a partire da Joseph Beuys fino a tantissimi altri. Sulla scia di questo senso di apertura e coinvolgimento si è sviluppato il progetto “Real Presence” come un laboratorio permanente, profondamente legato al territorio, ma anche impegnato a restituire a Belgrado il suo spirito internazionale e metropolitano… come ha detto Szeemann, “a mostrare che Belgrado è ancora viva!”

A Roma hai esperienze di insegnamento e di curatela: cosa significa lavorare per un Museo Italiano? Quale la tua valutazione sul sistema museale e più diffusamente dell’arte in Italia?
Certamente avere la possibilità di collaborare con un museo che stava decollando, come il MACRO nel 2002, è stato molto importante. Oltre alcune mostre, per diversi anni ho curato il programma d’incontri “Art Highlights”, che credo abbia rappresentato una significativa apertura internazionale per Roma in quel momento, ma soprattutto ha cercato di valorizzare l’idea di museo come luogo di produzione di conoscenza. Accanto alle mostre intese come forme di narrazioni spaziali, c’erano queste altre forme che si diramavano nel tempo, creando significato utilizzando come materiale le parole, oltre che le immagini. Alcune stagioni erano l’occasione per avvicinare il pubblico a certe poetiche artistiche attraverso il coinvolgimento di nomi come Marina Abramovic, Christian Boltanski, Alfredo Jaar, Ernesto Neto, Tobias Rehberger, Tracey Emin o Anri Sala, altre per mettere a confronto diverse pratiche curatoriali, a partire da Harald Szeemann, Achille Bonito Oliva, Jan Hoet fino ai più giovani come Hans Ulrich Obrist, Nicolas Bourriaud, Daniel Birnbaum, Hou Hanru, e altre ancora per presentare, in molti casi per la prima volta, alcuni contesti culturali come l’India, l’Africa o l’Oriente, che poi sono diventate parte del mondo dell’arte globale in maniera più preponderante.
Dieci anni fa MACRO e MAXXI, per rimanere nell’ambito Romano, rappresentavano una promessa per questa città di diventare un punto attivo sulla mappa della scena globale, ma ciò non è accaduto. Anzi, questi, come anche altri musei da Sicilia a Piemonte, testimoniano un momento di profonda crisi che si estende anche su altri livelli del sistema dell’arte, rendendo difficile vedere  spiragli di ripresa.

Cosa accade in Polonia nel mondo dell’arte e della cultura? Come sono organizzati e su cosa investono? Insomma…punti di forza e debolezza comparati al nostro sistema
Sono in Polonia da poco più di un anno, quindi forse non abbastanza per cogliere tutte le sfumature, ma sufficientemente per sentire una propulsione in avanti, una forte voglia di emergere e conquistare visibilità oltre ai confini nazionali. A differenza di molti paesi dell’Est, la Polonia ha avuto una storia culturale densa che ha raggiunto picchi molto alti:  un retaggio che non si è dissolto ancora. E’ stimolante a livello intellettuale.
A livello istituzionale invece, la Polonia è in fase di crescita: fin’ora il Centro d’Arte Contemporanea a Torun è stato l’unico nuovo e costruito appositamente per accogliere l’arte contemporanea, ma il processo di ampliamento e rafforzamento del sistema infrastrutturale delle istituzioni è solo al inizio. Il MoCAK di Cracovia ha aperto recentemente una nuova ala di Claudio Nardi; Wrozlaw avrà il nuovo museo come anche dovrebbe averlo Varsavia nel 2015, grazie all’ imponente progetto del architetto Svizzero Christian Kerez. Per adesso molto attive sono la storica Galleria Zach?ta o l’imponente Centro per l’Arte Contemporanea – Castello Ujazdowski che dirige Fabio Cavallucci a Varsavia, ma non sono dietro nemmeno altre città come ?ód? con il suo museo con la doppia sede per una delle più affascinati collezioni d’arte moderna costruite già negli anni ’30 grazie al impegno di artisti come W?adys?aw Strzemi?ski e Katarzyna Kobro e poi ampliata fino ai rappresentativi lavori degli artisti contemporanei polacchi ed internazionali. Anche la vicinanza di Berlino significa molto, non solo per i curatori e gli artisti ma soprattutto per le giovani gallerie che preferiscono aprire lì per assicurare una maggiore promozione internazionale, visto che il collezionismo privato è ancora agli albori in Polonia.

Si può tessere un fille rouge fra questi territori fuori dal main stream del mondo dell’arte? Polonia e Serbia sono esempi di rinascita dopo momenti critici: quali modelli esperiti in questi luoghi ti senti di condividere con colleghi Italiani?
Sebbene entrambi i paesi vengono fuori da una profonda rottura dopo la caduta del muro di Berlino, la Serbia ha ancora molti conti da fare con il suo passato recente e passi da compiere per il processo di integrazione nella EU, mentre la Polonia è già parte dell’Europa ed è in crescita su molti livelli. Tra questi paesi la Polonia è quella che ha scommesso maggiormente sull’arte contemporanea. Lo testimoniano non solo investimenti sui nuovi spazi per l’arte ma anche quelli a sostegno di loro artisti all’estero: Miroslaw Balka in mostra a Tate Modern o Goshka Macuga a Whitechapel, per citare alcuni esempi recenti. A parte questo livello che riguarda più la politica culturale, rimane sempre quello più legato alle prassi artistiche e all’attivismo che alcuni artisti portano avanti: in precedenza questo attivismo scaturiva dalla necessità di connettersi con altri contesti culturali, mentre oggi ha connotazioni politiche più esplicite.

Riesci a fare una previsione su come si evolverà il sistema dell’arte e i suoi operatori/luoghi/processi?
Trovo sempre difficile generalizzare e fare previsioni. Mi interessa di più sperimentare e intraprendere percorsi che non avevo preso prima. Ad esempio, ora stiamo lavorando al CoCA su un progetto che vedo evolversi in diverse direzioni al di fuori dei soliti circuiti del mondo dell’ arte e trovo questo piuttosto entusiasmante. Si tratta di progetto che porta il titolo “The Fourth State of Water: from micro to macro”, a cura di Victoria Vesna, un’artista e ricercatrice molto legata al mondo della scienza. L’ho voluta invitare a curare una mostra proprio perché mi sembrava interessante rivolgersi a un’artista, e soprattutto all’artista che opera su livelli diversi di quelli delle gallerie e delle istituzioni museali più main stream. Lavorando in un ambito dove conta la ricerca, dove interlocutori non sono solo addetti dell’arte contemporanea, dove lo spazio virtuale della rete equivale a quello fisico dello spazio espositivo, si sviluppano approcci diversi e soprattutto si trattano temi di grande attualità ma allo stesso tempo molto più accessibili. Cosi sto testimoniando che questo progetto sta superando il solito format della mostra, si sta evolvendo in una piattaforma di scambio, dove gli artisti veramente lavorano peer-to-peer con gli scienziati e altri studiosi. Il tema dell’acqua poi, sebbene trattata dagli artisti nelle chiavi più diverse, da quella semantica e simbolica a quella scientifica ed ecologica, rimane un tema vicino a tutti, ed ecco che troviamo molte altre strutture e organizzazioni impegnate nel sociale a cercarci e proporre collaborazioni. Si sta verificando un formato che funziona veramente come una rete, alla quale si stanno connettendo anche strutture che operano al di fuori del mondo dell’arte e tutto questo sta generando un nuovo pubblico, sia al livello locale che a quello globale. Il mondo dell’arte spesso soffre di autosufficienza e di autoreferenzialità, e credo necessiti di aperture e nuovi modi per esprimere impegno per le questioni che riguardano l’intera collettività.