Insieme all’avvento del web 2.0 si è sviluppato anche il concetto di dimensione sociale, di condivisione, di alto grado di interazione tra sito e utente. Blog, Forum, Facebook, Google+, MySpace, Twitter: se da un lato questo nuovo approccio alla rete ha reso possibile una maggiore libertà di fruizione, creazione e modifica dei contenuti multimediali da parte dell’utente, dall’altro lato ha fatto sì che le stesse informazioni da lui inserite si siano trasformate in dati facilmente accessibili e utili per le analisi di web marketing e per le strategie customer-oriented.
Senza rendercene conto, e continuando con le notre attività quotidiane in rete, siamo diventati una fonte inesauribile di informazioni, una vera e propria gallina dalle uova d’oro.
Oggi le potenze del web sfruttano queste continue ondate di informazioni per carpire e analizzare le abitudini di navigazione degli utenti, dal luogo in cui si trovano al tipo di vita che svolgono. E l’analisi è sempre più raffinata: non si limitano solamente a sapere se ci piace la musica, ma soprattutto che tipo di musica e su quale dispositivo tendiamo ad ascoltarla. La corsa a chi raccoglie più informazioni a questo punto è inarrestabile ed il concetto su cui si fonda è abbastanza scontato: più dati personali vengono analizzati ed offerti alle varie aziende, più spazi pubblicitari vengono venduti e di conseguenza più possibilità d’acquisto possono esserci.
Il problema nasce nel momento in cui questi dati vengono divulgati senza il nostro consenso e in modalità a noi sconosciute: esistono infatti delle redditizie multinazionali di marketing che controllano, gestiscono e diffondono tutte le informazioni sul chi siamo e cosa facciamo, informazioni che poi verranno rivendute al miglior offerente e utilizzate al fine di poter anticipare un giorno i nostri futuri bisogni e desideri.
Oggi, per esempio, Google è progredito, se così si può dire, alle ricerche personalizzate: questo significa che ogni ricerca fatta non è la stessa per tutti gli utenti, ma viene bensì aggiustata sulla base delle precedenti ricerche personali. In pratica, grazie ai suoi 57 indicatori utilizzati per capire chi siamo e cosa ci piace, Google decide che cosa far vedere e a chi.
Che questa rivoluzione della personalizzazione cerchi di influenzare le nostre future decisioni d’acquisto si sapeva, prezzo un pò scomodo da pagare ma inevitabile in uno stato di progresso tecnologico quale quello in cui viviamo; più preoccupante invece come le informazioni vengano filtrate per ciascun utente nei vari siti di notizie personalizzate. Si parla infatti di bolla dei filtri, come la definisce Eli Pariser nel suo libro The filter bubble appunto, un vero e proprio procedimento passivo e involontario in cui crediamo di essere liberi di analizzare, capire e scegliere, quando in realtà le scelte sono già state fatte per noi.
In definitiva ci ritroveremo ad ascoltare solamente quello che vogliamo sentirci dire.
Il sistema della personalizzazione funziona indubbiamente sui prodotti di consumo e sul consumatore, ma non sulle persone. Funziona per indirizzarci verso l’acquisto di un paio di scarpe francesi piuttosto che uno zaino da trekking, ma non funziona per il sistema di informazione libero, come dovrebbe essere quello di internet.
Gli attuali servizi on-line dovrebbero quindi dare alle persone dei modi e delle indicazioni semplici per controllare e capire come i propri dati e le loro informazioni personali vengono utilizzati sul web. Senza questo finiremo per allontanarci dal concetto originale di internet quale mezzo rivoluzionario di condivisione e confronto, per avvicinarci invece ad un mondo digitale sempre più richiuso su noi stessi e sempre più simile a noi stessi.

Foto: Isabella Fabris©