Si sono ridotte drasticamente da 25 ad 11mila le domande di riscatto degli anni di laurea ai fini del calcolo pensionistico presentate all’Inps nel 2011. La causa scatenante di questo trend negativo, secondo il presidente dell’istituto nazionale di previdenza sociale, Antonio Mastarpasqua, sarebbe stata l’intenzione manifestata da parte del governo lo scorso agosto di non prendere più in considerazione gli anni riscattati per anticipare la pensione. Dichiarazioni che avevano certamente creato confusione e sconforto in quanti avevano temuto di veder sfumare non solo l’uscita dal mondo del lavoro, ma anche i soldi investiti per raggiungere anticipatamente questo traguardo.

A questa preoccupazione si era aggiunta, inoltre, la demoralizzazione di non vedersi riconosciuti anni di sacrifici passati sui libri e di sentirsi considerati “da meno” rispetto a tutti coloro che i sacrifici invece li hanno vissuti parallelamente nel mondo del lavoro.

Per quanto questo paventato rischio non si sia infine concretizzato, indubbiamente ha influito notevolmente sul calo delle domande di riscatto. Tuttavia una tale flessione che ha raggiunto un trend negativo del 55% non può avere un’unica giustificazione.

Riscattare la laurea innanzitutto è un costo, spesso molto elevato. Prima si avviano le pratiche e meno onerose sono le somme che bisogna versare all’istituto di previdenza ( la cifra può essere inoltre rateizzata senza interessi aggiuntivi e può essere detratta dal reddito). A secondo che vengano avviate da neolaureati o da neo assunti nel modo del lavoro, le pratiche per il riscatto prevedono un minimo di cinquemila euro da versare per ogni anno riscattato: pertanto, per una laurea specialistica di cinque anni la spesa totale ammonterebbe a venticinquemila euro. Una cifra cospicua a cui non viene più associata la garanzia di una pensione altrettanto remunerativa. I giovani che si affacciano oggi nel mondo del lavoro sono consapevoli, infatti, non solo dell’assenza di tutele contrattuali, ma anche di una incertezza generalizzata per le proprie prospettive future: la pensione viene considerata un traguardo decisamente aleatorio e non sufficiente a coprire le esigenze minime della vita quotidiana. Quanti ragazzi temono che i contributi versati non verranno mai corrisposti o che l’uscita dal mondo del lavoro venga ritardata a tal punto da sembrare quasi irraggiungibile?

Sul sito dell’Inps è disponibile una tabella in cui sono riportate le cifre esemplificative dei costi complessivi, sicuramente non incoraggianti in un momento come questo in cui le prospettive future dei giovani non sono rassicuranti.

La sfiducia generalizzata nell’investimento negli studi universitari per raggiungere un livello occupazionale superiore è legata anche al valore legale del titolo universitario. Il dibattito in merito si è riacceso all’inizio di quest’anno quando l’attuale governo tecnico ha deciso di riportare in auge una passata diatriba che attiene non solo la qualità e il livello giuridico del cosiddetto “pezzo di carta”, bensì l’intero sistema di valutazione e di classificazione delle università italiane.

Si concluderà proprio oggi la consultazione pubblica avviata dal Miur per il valore legale del titolo di studio. E in attesa dei risultati definitivi, le prime anticipazioni non sembrano lasciare spazio a dubbi. La maggioranza degli utenti che ha partecipato al sondaggio ritiene che il titolo di studio rappresenti ancora un “valore aggiunto” per l’ingresso nel mondo del lavoro, in particolar modo per l’accesso nell’ambito della pubblica amministrazione. In questi anni, infatti, si sono scontrati sulla questione due opposti schieramenti: da un lato chi continua a difendere lo status del titolo di studio universitario e il suo peso per l’accesso ai concorsi pubblici; dall’altro invece chi ne chiede l’abolizione, rimarcando lo scarso criterio oggettivo nella valutazione di tali titoli, a causa della mancanza di un controllo di qualità altrettanto oggettivo per le università italiane. In sostanza, viene messa in dubbio l’uguaglianza e l’equiparazione delle lauree conferite dagli ottanta atenei italiani abilitati. Questo livellamento indiscriminato per l’ingresso nei concorsi pubblici non incentiverebbe le università ad investire nelle docenze di qualità, né sarebbe utile per le famiglie nella selezione degli istituti maggiormente formativi e utili per l’ingresso nel mondo del lavoro. Tuttavia è necessario considerare le conseguenze di questo annullamento generale del titolo: qualora non vi fosse alcuna differenza tra diploma e laurea, il giovane intenzionato a proseguire gli studi verrebbe demotivato nel proseguire la propria formazione. Inoltre, sebbene non ci sia un criterio di valutazione oggettivo per la classificazione degli atenei, bisogna riconoscere che il livello di preparazione fornito dalle università italiane sia nettamente superiore a quello europeo. A confermare questo dato sono i numerosi giovani italiani che, grazie alla propria preparazione, riescono con facilità a trovare il lavoro per il quale hanno studiato all’estero, proprio in ragione delle competenze acquisite in patria.

Queste considerazioni dovrebbero far riflettere: probabilmente il problema non consiste nell’abolizione o meno del valore legale, bensì nella espulsione dall’elenco delle università abilitate di tutti quegli istituti che ne abbassano il livello qualitativo. Nel momento in cui il titolo di laurea perdesse il suo valore, accanto alla sfiducia e al calo dei riscatti degli anni universitari per il calcolo pensionistico, quale incoraggiamento avrebbero i giovani nel proseguire la propria formazione?