buiobendaSiamo poco più di trenta, uomini e donne. Ci accoglie Ulla, che nel foyer inizia a raccontarci di come l’Espace sia uno dei luoghi in cui è nato il cinema, a fine Ottocento; anche i Lumiere sono passati da qui. Poi ci guida in un veloce training: inspirare ed espirare, ridire, saltellare e fare boccacce.
Ulla Alasjärvi, fondatrice con il compagno Beppe Bergamasco della Compagnia Sperimentale Drammatica, matura ed energica donna finlandese trapiantata da trent’anni in Italia, ci dice che questo spettacolo ha a che fare con il sogno, quindi ci porge una benda nera e ci invita ad indossarla. A coppie gli attori ci accompagnano all’interno della sala e ci fanno sedere. Lo spettacolo inizia.

Se la parola teatro deriva dal greco theatron, che rimanda all’idea della percezione visiva, qui la precedenza è acquisita dall’udito, dal tatto, dal gusto. Lo spettacolo, ma potremmo chiamarla performance partecipata, dura circa un’ora, anche se dopo pochi minuti bendati semplicemente perdiamo il senso del tempo, insieme a quello della prossimità. Sentiamo gli altri abbastanza vicini, ma non sappiamo esattamente in quale punto ci troviamo del grande salone bianco che è l’Espace e allo stesso modo diventa praticamente impossibile stabilire dove sono gli attori.

Questa “perdita dell’orientamento” è la condizione necessaria alla performance.

Una volta seduti, gli attori passano a consegnarci dei sacchetti di riso come antistress, perché questa condizione innaturale può davvero generare una certa ansia. Quindi iniziano ad alternarsi una serie di “sequenze”: brevi letture, dialoghi intimi, brani musicali e rumori che gli attori eseguono a varie distanze e posizioni da noi “spettatori”. In questo stato è piuttosto difficile rimanere concentrati e ammetto che ad un certo punto mi è venuto sonno. Per ridestare l’attenzione e mantenerci “attivi”, gli attori, quattro in totale, ci girano intorno sussurrandoci alcune frasi nell’orecchio, porgendoci un cioccolatino o una mela, sfiorandoci una spalla.

Credo si possa dire che ciascuno ha “visto” uno spettacolo diverso. Certo non dormivamo, ma l’approssimazione al sogno era così forte che le immagini che si susseguivano nella mente di ciascuno erano il frutto della propria personale fantasia, se non proprio del subconscio.

Terminata la performance e lasciatoci il tempo di adeguare gli occhi alla luce, Ulla ha iniziato a chiederci cos’era accaduto: se ricordavamo i dialoghi e chi li aveva pronunciati (uomo o donna), se avevamo riconosciuta la tal melodia, se avevamo mangiato la mela. Le risposte erano vaghe, ci sentivamo tutti un po’ fuori fase. L’obiettivo, ha spiegato Ulla, era esattamente quello di sottrarre al senso della vista il monopolio della creazione di rappresentazioni, ovvero aiutarci a trovare altri appigli per le nostre immagini mentali.

L’idea di questo progetto è nata qualche anno fa, quando la compagnia ha tenuto un ciclo di laboratori a Palermo e si è trovata a lavorare con due persone ipovedenti. Questo limite ha suggerito la strada per una modalità di lavoro teatrale che, a partire da gesti e soluzioni estremamente pratiche, garantisse un’alta resa rappresentativa. Detto altrimenti: quali azioni possono garantire al pubblico una visione senza la necessità della vista?

Il teatro contemporanea, così come la musica colta e l’arte, tende alla continua rimessa in discussione del proprio linguaggio. Ci chiediamo quindi cosa, come, perché rappresentare. La domanda però è lì da sempre e Cartesio la diceva così: sogno o son desto?