daveriocrisiAll’Auditorium della Gran Guardia di Verona sold out per Philippe Daverio, invitato dalla Camera di Commercio e dal Comitato Promozione Imprenditorialità Femminile mercoledì 20 novembre per raccontare “L’arte di Inventarsi. Riflessioni per nuove strade imprenditoriali”.

Parte da Einstein Daverio, ricordando la nota affermazione che sottolinea come non si possano risolvere i problemi attuali partendo dalla stessa prospettiva in cui sono stati creati e come l’utilizzo della parola crisi sia innanzitutto espressione di un mancato desiderio di superarla.

Affrontando i diversi argomenti proposti, mette più volte in luce la versatilità appartenente al mondo femminile, in un Paese che lo sta ancora scoprendo piuttosto a fatica; creatività, visione d’insieme, capacità di pensare all’altro sono l’anima del commercio e il volano per trovare nuove strategie, anche imprenditoriali. Sottolinea poi la sensibilità storica, quasi genetica, insita in un popolo, quello italiano, evidente nel sapere riconoscere più di ogni altro la bellezza e la qualità a partire dai propri stessi sensi fisici; la sua tradizionale arguzia e spontanea lungimiranza nell’intuire i cambiamenti del mercato e nel saperli cogliere, senza necessariamente doversi ingegnare nello strutturare prassi per analisi e ricerche di settore.

Tutte qualità apparentemente in sintonia con le tipiche nicchie produttive della penisola, nonché con il suo patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale in genere, di per sé un “grande negozio” naturale. Affinché “entrino i clienti”, servirebbe però che fosse “ben pulito e presentabile”, mentre resta purtroppo spesso legato a normative superate e non riconsiderate alla luce delle esigenze contemporanee, oppure frutto di scelte che evitano la valorizzazione, se non il buon senso. Diventa preoccupante inoltre considerare come statisticamente solo il 10% degli italiani crei prodotto, un tasso molto basso rispetto ad altri Paesi europei e che rende insostenibile l’economia nazionale.

Sarebbe necessaria una nuova consapevolezza della ricchezza e della bellezza, le quali non necessariamente devono rappresentare due estremi divisi da un divario insormontabile, ma che anzi dovrebbero fungere sincronicamente da concetti ispiratori alla base di azioni responsabili. Ci vuole una disponibilità a fare comunicazione come non si è mai fatta prima, ad andare al di là anche degli strumenti di mercato utilizzati da realtà meno intuitive e molto più strategiche della nostra, perché non bastano più nemmeno quelli e perché le crisi servono ad andare oltre. Compreso l’andare oltre se stessi, partendo dall’identità, dal “Paese che siamo”.

Ma quando l’accento della riflessione si sposta per un momento sul “Paese culturale che siamo”, con un’offerta senza pari, e su come esso abbia tutti i presupposti per divenire il motore protagonista di un’economia produttiva e sostenibile, la risposta per tradurre le parole in fatti è molto difficile da dare.

 

alinoviSeguo l’indicazione “Sala Conferenze”, scendo e vedo dietro la porta dalla vetrofania MAMbo una signora di mezza età che, completamente nuda, accarezza una sedia solitaria, in mezzo alla stanza come lei, facendo passetti di danza sbrinati; di fronte, pochi esseri umani, il pubblico, che se ne stanno vestiti di nero, stretti stretti come uccellini su un ramo quando fa freddo. Il silenzio. Solo, i miei tacchi che mi portano via.
Nella stessa giornata in cui Cattelan manda il duo I Soliti Idioti a ritirare un premio accademico assegnatogli per la sua carriera artistica, creando scontenti e malumori nell’ambito cattedrato, il concetto di arte mi ricorda quanto difficilmente sia riconducibile a un’ottica scientifica, a una evidenza.

Ci sediamo, con Gino Gianuizzi, a un caffè non distante dal museo, ma abbastanza distante perché ci riporti a un vissuto fatto di quotidianeità banale, un po’ così, che nulla ha a che vedere con l’arte. Ho chiesto a Gino di fare una chiacchierata con me sulla giornata di approfondimento degli studi di Francesca Alinovi, che si inaugurerà domani a Bologna, in occasione del 30ennale della scomparsa della ricercatrice del DAMS. E lui, che ai tempi di Neon>Campobase è stato il mio capo, con la sua costante gentilezza e disponibilità ha accettato.

Esordisco dicendo: “L’idea che avevo Gino, è di fare una chiacchierata di tipo informale su questa cosa. So che eri molto amico di Francesca Alinovi e vorrei incentrare il discorso su te e su come stai vivendo questo anniversario. ”

Al bar ci sediamo a un tavolino “intimo” nero con due sole sedie. Il bar è chiassoso, luminosissimo, vetrate a parete aprono scorci di strada, che gli fanno da quinta, mentre mi allontano per ordinare i nostri caffè. Dovrebbe ‘risvegliarci’ dal sogno dell’arte, e invece, per gente come noi, è solo un buon motivo per avvicinare le sedie e ripiombarci più convinti di prima.

 

G: Sono sempre un po’ imbarazzato nei bar, perché non so mai che cosa ordinare.

A: A cosa stavi lavorando prima che ti interrompessi?

G: Stavamo disponendo questi oggetti nelle teche… e beh…

A: Che effetto ti ha fatto mettere nelle teche i tuoi stessi oggetti?

G: Eh, ecco, vedi, io non sono mai stato tanto attento alla conservazione. Ho dovuto cercarli, letteralmente, a casa mia e nell’archivio di Neon.

A : Il mitico archivio…

G: Eh appunto… e mi ha fatto un certo effetto vederli mettere in una teca. Ma vedi lei, (Francesca Alinovi) aveva fatto in tempo a beccare questa meteora che era l’Enfatismo… e il materiale nelle teche parla di questo.

A: E’ stata tua l’idea di fare questa giornata di convegni?

G: Si, in occasione dell’anniversario, o meglio dei 30 anni, sono andato al MAMbo prima e poi all’Università. E hanno accettato tutti.

A:  La concomitanza con il premio Alinovi_Daolio?

G: No, li c’è stata l’influenza di Cattelan che ha dato a Barilli la dispoibilità per ritirare il premio solo in ottobre.

A: A proposito che cosa ne pensi di quello ha fatto Cattelan?

G: Mah, vedi, è stato un evento tristo, secondo me. Io non conoscevo i due comici, ma mi sono sembrati di bassa qualità. E sembrava si comportassero secondo un canovaccio prestabilito, per cui non c’è stato neppure un reale dialogo con chi era presente. Sapevano che Barilli si sarebbe infuriato e lui lo ha fatto.

A: Forse, la scelta è caduta sui due li, perché c’era l’intento di abbassare, per cosi dire, il livello pomposo del premio dato da una Università…

G: Non possiamo saperlo, può essere anche cosi, resta però da ricordare come “l’abbassamento” può essere fatto anche in chiave colta, e qui non è successo. Bassa qualità, che il riferimento alla ‘Nona Ora’ non alza.

A: Cosa ne avrebbe pensato Francesca Alinovi?

G: Mah è difficile dirlo, sono passati 30 anni, e per fortuna queste cose le sono state risparmiate…

A: Quando vi siete conosciuti?

G: Ci siamo conosciuti all’inaugurazione di Neon, era il luglio del 1981. Lei scrisse in proposito “non andavo cercando opere, ma ho trovato un clima”. Ecco, lei era percepita esattamente come noi, un’ artista tra artisti, non una critica (o una curatrice, che all’epoca non esisteva), per noi non c’era alcuna differenza tra noi e lei. Attorno alla sua figura si era creato questo clima di persone, che lei chiamò “Enfatismo”.

A: Da?

G: Enfatismo viene dagli Enfaticalisti, in Cenerentola a Parigi, di Audrey Hepburn. La protagonista parte per Parigi per “vivere” il clima che ruota intorno a questi artisti chiamati Enfaticalisti. Ecco quello il motivo, per Francesca tutto ruotava intorno all’”enfasi dell’essere”. Nelle teche vi è in mostra anno per anno il percorso della sua critica, dal 1976 al 1983, la sua tesi su C. Corsi, quella di dottorato su Manzoni, le varie collaborazioni. Ma ciò che stupisce è come, dopo aver cominciato i suoi viaggi a NYC, ci sia una grande apertura, verso la musica, ad esempio. Ecco, per lei non c’era una forma d’arte più nobile dell’altra, valutava tutto con un ampio spettro. E poi, ci sono materiali che abbiamo trovato ma che non hanno trovato spazio nelle teche. Sono i suoi studi … e questo è straordinario… perché è raro trovare quello che si nasconde sotto il mescolamento di un cervello, e invece in lei lo abbiamo ritrovato tutto: c’è Sartor Resartus per dirne uno… ritrovi tutto nei loro scritti. Aveva studiato molto, e questo la rendeva ancora più problematica.

A: Tu dici? Perché problematica?

G: Problematica da accettare nel 1980. Considera che all’epoca l’Università era ancora un ambiente chiuso, studi seri riservati a gente seria, non a gente con i capelli sparati in aria come lei. Invece lei era seria. Lavorava con serietà anche con noi che eravamo dei ragazzi, non ci trattava meno bene di come trattava gli artisti, né abbiamo mai avuto l’impressione che ci volesse vendere come una sua scoperta. Non io almeno. La sua era una partecipazione totale, un clima, come lo chiamava.

A: Aveva ritrovato in voi qualcosa di simile alla New York degli anni ’80?

G: Si. Lei si era accorta che stava succedendo qualcosa di simile qui, ma quegli anni erano diversi da oggi. E’ diverso da oggi, oggi che alla ricerca è prediletta la citazione. O la ricerca della citazione. New York era assolutamente un altro mondo, non era possibile sapere cosa succedeva. Era un viaggio poco accessibile. Ognuno di noi lavorava alla propria ricerca, metteva fuori il risultato e poi lo confrontava con gli altri. Era questo clima che ci faceva assomigliare a New York, oltre a, chiaramente, l’uso di alcuni materiali o tematiche che sembravano comparire anche in altri lavori americani. Ricordo che lei fece una recensione su Flash Art del luglio dello stesso anno, in cui parlava proprio di questa energia nuova della galleria, con le sue luci al neon sparate e il suo aperitivo…

A: Doveva essere ben l’immagine di una galleria d’arte allora…

G: Esatto era totalmente un’altra cosa. Noi eravamo li, quello che veniva fuori emergeva spontaneamente, non citavamo nessuno, era la nostra ricerca, e veniva fuori dallo stare insieme, a casa di qualcuno, o uscendo in gruppo.

A: E come hai trovato il clima oggi?

G: Come ti dicevo, Francesca beccò questa veloce meteora dell’Enfatismo, e questa si chiuse con la sua morte. Ne seguì una diaspora, ho avuto contatti con alcuni degli artisti, ma con altri niente.

A: E come vivi questo momento?

G: E’ strano. Nel senso che ritrovarci dopo 30 anni a mettere i nostri ricordi in fila… ma io sono contrario al clima del “Ti ricordi…..???” . Più che altro, volevo spezzare questa rimozione che da trent’anni avvolge la sua figura, di Francesca Alinovi infatti si parla solo per il fatto di cronaca, lei è il “Delitto del D.A.M.S.” e nulla si sa delle sue ricerche come critica d’arte.

A: Come sono stati scelti i relatori?

G:  Volevo fare una giornata studio di tipo scientifico. Quindi cercando di evitare tutte le forme di intervento non tali. Ho invitato persone che l’avevano conosciuta, per cui non è escluso del tutto il fattore affettivo. Per esempio ci sarà anche sua sorella, che per trent’anni ha allontanato tutti. E questo per me è molto bello.

A: Adesso poi che Ciancabilla sta tornando a frequentare, sembra, stabilmente l’ Italia… Leggevo dei suoi tentativi di fare un’ esposizione, ma che puntualmente sono abortiti, c’è chi parla di un’eminenza grigia… E’ per questo o perché i suoi lavori non convincono?

G: Ecco, Francesco (Ciancabilla) è un po’ “Ti ricordi come eravamo???”, non si è mosso da li. Voglio dire: se io prendessi un mio lavoro di trent’anni fa e lo mettessi fuori adesso…. Non avrebbe senso. Lui sembra voglia cavalcare il momento…

A: Posso scriverlo?

G: Si certo, infondo è questo quello cui va incontro. Anche se il serbatoio di una ricerca è sempre quello, questa fa strada e si evolve. Per esempio, tornando alle teche e al materiale, è questo il sentimento che ha fatto emergere in noi “Ci lavoriamo ancora!”, perché quel materiale ha riaperto tutte le nostre curiosità, e potrebbe interessare qualcun altro… almeno lo spero, spero che non sia un gioco fatto solo per noi perché ci piaceva.

Cosi, questa chiacchierata m’è parsa giungesse a una chiave di volta. E m’è parso che tutto ci potesse rientrare dentro come in un abbraccio. Come l’abbraccio che ci scambiamo ogni volta che ci vediamo con Gino, e come l’abbraccio quasi sulle strisce pedonali che ci siamo scambiati poco dopo. Lui tornando verso il MAMbo ed io qui a scrivere questa conversazione.

 

“Mettiamo dunque sul tappeto questa domanda: l’alto orizzonte di diritti che la nostra Costituzione consegna ai cittadini è compatibile con le (vere o false) costrizioni dell’economia? E se non lo è, come si risolve il contrasto, archiviando la Costituzione o agendo sull’economia e sulla politica?” Questa frase importante di Salvatore Settis ci fa ben capire che ci sono degli eventi che arrivano al momento giusto, quando l’attenzione dell’opinione pubblica è rivolta su altre materie considerate da sempre più importanti. Ma spesso le cose più importanti sono quelle che danno ancora un senso a questo nostro Paese che più passa il tempo e più sta franando sotto i colpi di una patologica inerzia che infligge il colpo di grazia su queste precarie fondamenta.
Ecco perché la cultura, in tutte le sue forme (anche di gestione), rappresenta l’ancora di salvataggio per tutti noi. Specialmente nei momenti di crisi. Essa è come una scialuppa che porta a riva, che ci riporta ad una dimensione più coerente con la nostra Storia.
Questa breve premessa permette di introdurre il prossimo convegno MADE IN ITALY E IL CAPITALE CULTURALE a cura de Il Sole 24 Ore nell’ambito di Florens 2012 e previsto per il prossimo 3 novembre a Firenze. Gli organizzatori evidenziano che Il termine cultura, nel suo significato più ampio, abbraccia numerosi ambiti: cultura è letteratura, moda, gastronomia, design, archeologia, paesaggio.
Valorizzare un bene culturale significa allora valorizzare singole identità del Made in Italy, ognuna delle quali rappresenta un asset strategico e competitivo per la crescita dell’economia nazionale. Il dibattito sulla valorizzazione del patrimonio culturale italiano sarà al centro dell’evento che analizzerà, attraverso eccellenti testimonianze provenienti dal mondo istituzionale, accademico, associativo e industriale, il binomio economia e cultura, il legame tra cultura e impresa e le politiche che istituzioni e imprenditoria privata stanno attuando per gestire il governo dei beni culturali in una logica di sistema. Il convegno si prospetta davvero di altissimo livello, sia per la qualità dei relatori, sia per le tematiche oggetto della giornata, quali il punto della situazione sul “Manifesto per una costituente della Cultura: obiettivi e risultati” e le “Tavole rotonde sulla governance dei beni culturali: ruolo delle istituzioni per un settore strategico dell’economia nazionale” e sulla “Valorizzazione del capitale culturale” con riferimento alle eccellenze del Made in Italy che fanno sistema. L’incontro, dunque, almeno nelle premesse, intende offrire una panoramica immediata dello stato dell’arte e lo fa attraverso un programma dinamico, quasi a voler scardinare l’immobilismo spesso “borbonico” di modelli di gestione che debbono essere totalmente oggetto di una adeguata reingegnerizzazione del sistema al fine di dare moderna veste alla materia, di strutturale importanza per la nazione, e per una “new economy” culturale che produca effettivo sviluppo e benessere.
Abbiamo appurato che la cultura non è un lusso, ma una necessità. E’ necessaria perché ci consente di essere liberi abbracciando tutto il sistema delle arti. Il pensiero corre subito alla particolare intervista di Fazio al genio Dudamel. Fare musica in quel modo non mette in moto soltanto una serie di strumenti, ma permette a chi suona uno strumento di sentirsi parte di un “sistema” in cui uno spartito diviene passato e presente. Respira di storia ma anche di attualità. Un connubio necessario per la cultura che attinge risorse da se stessa e le reinveste su se stessa. La cultura ha la capacità di auto rigenerarsi perché ha una forza propria, ha un capitale che può aumentare con un azionariato del tutto speciale. L’azionariato che porta al contributo di ciascuno per lo sviluppo della comunità. Ecco perché la cultura è un modello da seguire.
Nel patrimonio artistico e culturale vi è l’anima dell’umanità stessa che la storia vi ha profuso. Vi è una sacralità che appartiene ai luoghi come spazio in cui trova dimensione il presente, ma anche come dimensione parallela ed eternamente presente del passato, un passato che è memoria e in quanto tale è identità ed è senso civico di appartenenza.
Spiegare un quadro nelle scuole, capire una tecnica, comprenderne il contesto storico. E poi conoscere un paesaggio, difenderlo e tutelarlo, capire fino in fondo la scelta dei nostri costituenti di mettere tra i principi fondamentali un enunciato di difesa.
“Difesa”: il termine che oggi più che mai è necessario. Difendere ciò che abbiamo, ciò che è nostro, ciò che ci è stato donato. L’Italia ha davvero questo petrolio oggetto di mille convegni e approfondimenti, petrolio pulito che non inquina, carburante dell’anima, energia delle emozioni.
Cultura quale laboratorio costante e cantiere sempre aperto. Una costruzione alla quale possono partecipare tutti, perché quando la cultura diviene elitaria allora non può più chiamarsi cultura ma chiusura, poichè non permette di far crescere e di nobilitare un paese o una comunità.
Ecco l’importanza di conservare la memoria di una identità, che è allo stesso tempo personale ed universale, visione che appartiene a tutti ed in quanto tale il patrimonio artistico e culturale è stato riconosciuto, da sempre, come bene comune e della comunità, come bene pubblico nonostante il costante e annuale dibattito conflittuale tra demanio pubblico e privato. E’ indubbio ormai che il patrimonio artistico-culturale, oltre che paesaggistico, è una fonte di investimento economico che se potesse realmente essere sistematizzata ed inserita in un circuito economico, porterebbe alla produzione di un rendimento utile al patrimonio stesso, sia in termini di conservazione sia in termini di risorse reinvestibili in prospettive lavorative ed artistico- culturali nuove, e non solo nella logica del revival di un passato che torna. L’attenzione va posta a quelle emergenze naturalistico- paesaggistiche che richiedono un intervento immediato e mirato, volto alla tutela e alla messa in sicurezza dei siti archeologici e di tutte quelle aree di pregio artistico ed architettonico che sono a “rischio estinzione” in Italia.
L’Italia stessa è un patrimonio da tutelare, un percorso vivo di arte e storie che si ritrae nell’aspetto urbanistico, nella storia civile, nelle peculiarità geografiche fisiche e politiche oltre che culturali e antropologiche. L’Italia costituisce con le sue “rovine”. con i suoi “scavi”, con i suoi borghi, le sue “vedute” e i suoi “panorami” un museo a cielo aperto di molteplici civiltà storiche e antropologiche nel crogiolo fluido di geni di creatività che hanno influito nella cultura e che continuamente incidono nel patrimonio di una umanità che si ricongiunge all’umanità globale rivitalizzandosi e riformulandosi nella cultura.
Il patrimonio artistico rappresenta anche un ponte tra il gruppo e l’individuo, un ponte che ravvicina le culture, che le riflette o le proietta come attraverso una lente su altri orizzonti. La capacità di un’opera d’arte è quella di creare un “decodificatore” intellettuale di emozioni capace di codificare simboli, di introiettare significati e di trasformarli entro coscienze diverse da quelle originarie dell’artista che ha realizzato l’opera e da quelle di un altro osservatore e della sua emotività. Il patrimonio culturale è un linguaggio completo e immediato, l’immagine allegorica della conoscenza che si compie in una ricerca continua di esistenza e di immanenza, un linguaggio metaforico e meta- cognitivo dell’esperienza umana. Non si può prescindere da questa ricchezza, non si può lasciare indifeso questo patrimonio, né si può permettere di dilapidarlo o confinarlo nei meandri di una burocrazia che è incapace di infondere dinamicità al sistema tutela e di reinvestire.
Nel grande “cantiere” della cultura, che vive ed elabora progetti sempre nuovi di ponti realizzabili e percorribili tra passato, presente e futuro, deve trovare spazio e tempo quel patrimonio artistico che è riconoscimento di sé nell’universale umanità, segno indelebile di una “immortalità intermittente” e di un bene rifugio dal valore costante per chi sceglie il capitale culturale quale investimento sicuro.

 

LuBeC si appresta quest’anno ad aprire la sua ottava edizione. In otto anni molte cose sono cambiate, all’interno del vostro evento ma anche nel panorama italiano e internazionale. Quali sono le principali novità introdotte?
Lu.Be.C. nasce nel 2005 da un’idea di Promo P.A. Fondazione, con l’intenzione di contribuire allo sviluppo della filiera beni culturali – tecnologia – turismo. La prima edizione ha messo al centro dei lavori il “caso Lucca”, città che dal 1999 al 2005 aveva subito nel campo della valorizzazione dei beni culturali un’accelerazione direttamente proporzionale all’attivazione di sinergie crescenti tra le istituzioni locali. Il successo della prima edizione – cui parteciparono sin da subito in maniera propositiva sia il mondo pubblico, sia privato a livello internazionale – ci convinsero a trasformare l’iniziativa in un appuntamento ricorrente. Negli anni la prospettiva si è ampliata e l’evento ha assunto dimensioni molto più vaste. Il partenariato è cresciuto esponenzialmente anche per settori di intervento. Quest’anno ci saranno 16 incontri tra workshop, presentazioni, dibattiti, interviste e la rassegna espositiva Lu.Be.C. Digital Technology, dedicata alle nuove tecnologie applicate ai beni culturali, ospita al suo interno alcune delle imprese più innovative del settore e con loro molti enti pubblici.
I temi del 2012 sono naturalmente quelli del dibattito che appare sulla stampa, una risposta al manifesto della cultura del Sole24Ore, già dal titolo: Cantiere cultura: dal dire al fare.
E allora faremo in modo – tra le varie – di individuare strumenti finanziari a supporto dell’investimento privato, azioni per il miglioramento della collaborazione con il terzo settore, progetti formativi che uniscano la green economy e il patrimonio culturale.

Cultura e sviluppo. Pubblico e privato. Ricerca e tecnologia. Binomi importantissimi che verranno discussi nei panel del Lubec 2012. Come pensa possano rapportarsi nel contesto attuale di riferimento?
Mai come in questo periodo così critico a livello internazionale è necessario risolvere i nodi che legano questi binomi. Solo coniugando queste realtà, tenendo conto di quel che succede nel resto dei paesi europei, sarà possibile rilanciare l’economia nazionale. Con Lu.Be.C. vogliano dare un messaggio propositivo in questo senso. Non a caso – repetita iuvant – abbiamo il titolo “Cantiere Cultura: dal dire al fare”. Crediamo che la tecnologia sia oggi strumento indispensabile a supporto della valorizzazione e divulgazione dei nostri territori, mezzo per raggiungere target differenziati per cultura, età e lingua, ma non solo.
In questo quadro il tema rapporto pubblico – privato sarà trasversale e principio ispiratore. E’ naturalmente fondamentale che, perché questo rapporto si concretizzi in investimenti – il pubblico oggi si concentri sul definire chiaramente gli ambiti ed i contenuti che il tessuto produttivo e imprenditoriale ha a disposizione per trasformare veramente le idee di valorizzazione in lavoro. E una volta dati i paletti … che vinca il migliore!

Un altro dei temi affrontati sarà quello delle Smart Cities. Perché è importante, per le città italiane, a suo parere, diventare più “smart”?
Una delle tematiche fondamentali che tratteremo a Lu.Be.C. è il futuro dei centri storici nell’era delle smart cities. La convinzione è che i luoghi della cultura, in Italia quasi sempre legati a una storia antica, debbano comunque allinearsi con le politiche europee e diventare sempre più smart, sostenibili e accessibili al pubblico, con servizi adeguati alla loro vivibilità, naturalmente senza lederne l’animus loci (su questo abbiamo anche scritto un rapporto). Si tratta di un passo fondamentale perché le città non perdano la loro natura primigenia di luogo abitato.

“Immaginate che Leonardo da Vinci per una strana magia ritornasse tra di noi in questi giorni e venisse a Lucca, gli mostriamo quanto di buono si è conservato. Probabilmente avrebbe delle domande, una di queste potrebbe riguardare i turisti. Forse non capirebbe bene cosa sono i turisti in un mondo che non è il suo. Però, certamente, dopo aver guardato intorno si chiederebbe «Ma dove sono le botteghe? Dove sono le botteghe dei pittori, dei poeti, i musicisti? Dove sono i ragazzi che dibattono agli angoli delle strade?» Si chiederebbe probabilmente questo, dove sono i grandi architetti che hanno costruito questi palazzi straordinari? In una parola probabilmente si chiederebbe se continuiamo oggi a produrre cultura. Se le nostre città continuano a produrre cultura o stanno solo conservando. Se le nostre città stanno vivendo un modello passivo o un modello attivo di quella che è la promozione e lo sviluppo economico della città stessa.” Così Walter Sant’Agata a LuBeC 2011… mi sembra piuttosto esaustivo.

E’ indubbio che la cultura di oggi, ma soprattutto quella di domani, passa per il web 2.0. Crede che la governance italiana sia preparata a questa sfida e quali sono le criticità che ci troviamo ad affrontare?
Nel nostro Paese il mercato che si sviluppa attorno alla filiera dei beni culturali – tecnologie – turismo insiste per una percentuale consistente sulla committenza pubblica, ed è proprio nel sistema di scelte della committenza che deve trovare una chiave di volta per il suo sviluppo.
Le scelte della P.A. quindi sia a livello centrale, sia locale, devono essere guidate da valutazioni attente, che partendo dalla misurazione dei risultati delle azioni già realizzate incrocino con l’analisi dei fabbisogni per pervenire alla individuazione delle nuove strade da percorrere, cogliendo al meglio le potenzialità offerte dal mercato.
Credo che, in questo quadro, sia necessario considerare ogni spesa della PA un investimento. Ad ogni investimento sottendono delle scelte e per scegliere ci vuole competenza.
Da qui, la risposta è che la governance funziona se le persone sono preparate. La nostra PA ha avviato il processo formativo sui questi temi, ma è ancora a “macchia di leopardo”. Credo che sia fondamentale che a livello centrale si incanalino gli investimenti sulla formazione, non solo delle nuove generazioni, ma anche di chi con le nuove generazioni deve interagire, la formazione di coloro che ogni giorno comprano servizi per un utente sempre più esigente ed attento.