eastpak6L’1 dicembre è la Giornata Mondiale contro l’AIDS. 56 artisti si sono preparati per partecipare, in collaborazione con Eastpak Artist Studio.

Il progetto ha previsto lo stravolgimento del celebre zainetto, trasformato in opera d’arte dalle mani e dal genio di creativi provenienti da tutto il mondo. L’Italia ha partecipato con le creazioni di Enrico Robusti, Maicol & Mirco, Simone Legno – Tokidoki, The Bloody Beetroots, No Curves (i primi 5 in galleria), che hanno trasformato un oggetto comune in scultura, tela, disegno, fumetto.

Le opere saranno acquistabili dal 2 dicembre e tutti i proventi andranno all’organizzazione no-profit Designers Against Aids.

Per vedere le opere di tutti gli artisti è possibile visionare il sito ufficiale del progetto.

eucreNonostante l’arrivo dell’autunno, dall’Europa soffia un vento caldo carico di notizie positive per chi opera nel settore creativo culturale ed audiovisivo.
La Commissione Europea ha deciso di stanziare 1.801 milioni di euro tra il 2014 e il 2020, per il programma Europa Creativa, attraverso il quale prevede di raggiungere circa 8.000 organizzazioni culturali e 300.000 artisti, professionisti della cultura e le loro opere. Il Parlamento europeo ha votato favorevolmente il programma.
Scopo primario: aiutare chi si occupa di ‘cultura’ a varcare i confini nazionali, rafforzando il ruolo dei piccoli imprenditori e delle organizzazioni locali, favorire l’innovazione, la costruzione di un pubblico paneuropeo e nuovi modelli di business.

Secondo la Commissione, dal punto di vista economico questi finanziamenti sono il modo più efficace di ottenere risultati e un effetto duraturo per aiutare i professionisti del settore culturale ed audiovisivo ad inserirsi sui mercati internazionali e a lavorare con successo per promuove lo sviluppo di opere che presentano un potenziale di distribuzione transfrontaliera; più di 5.500 libri e altre opere letterarie verranno tradotte e pubblicizzate e più di 1.000 film europei, verranno distribuiti su piattaforme tradizionali e digitali.

Nonostante infatti la diversità culturale e linguistica europea sia riconosciuta dai Trattati come un principio fondamentale e più volte si sia proclamata la necessità di rafforzare la competitività dei settori culturali e creativi, i dati dell’ultimo rapporto Eurostat relativi al 2012, riportavano un panorama non proprio felice, dove tra l’altro l’Italia chiudeva la fila con una percentuale di investimenti statali nel campo culturale inferiore alla media degli altri paesi membri.
Ora sembra che ci siano tutti gli elementi per uscire dalla crisi e dare una spinta propositiva, -oltre a un sostegno economico- all’enorme ricchezza che molti, soprattutto tra i giovani continuano a ritenere il cuore vivo e pulsante in cui investire tempo e risorse, nonostante la disattenzione se non peggio, gli ostacoli da parte delle istituzioni.

Voci di corridoio sussurrano che le prime call usciranno a dicembre con scadenza a marzo. Il Programma vede un aumento di budget del 9% rispetto al precedente Programma Media e Cultura 2007-13 e resterà suddivido nei due filoni principali: Media e Cultura, oltre a una sezione tran-settoriale che istituirà una desk di supporto e archivio dati e dal 2016 un fondo di garanzia quale strumento di garanzia finanziaria destinato alle PMI e alle organizzazioni.
Quattro i settori di finanziamento: progetti di cooperazione, traduzione letterarie, network e piattaforme.

Potranno partecipare gli operatori attivi nei settori creativi culturali, aventi personalità giuridica (non sono ammesse infatti domande individuali) e sede legale in uno dei 28 Paesi Membro Ue, ma anche Norvegia, Svizzera, Turchia, Macedonia, Serbia, Islanda, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania; e –grande novità!- anche i Paesi partecipanti alla cosiddetta European Neighbourhood Policy -ENP: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina, Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria e Tunisia.

Un’opportunità importante per fare rete, acquisire competenze e, grazie alle più moderne tecnologie digitali diffondere la coproduzione europea e internazionale, scambi di competenze professionali e know-how, attraverso tournee, eventi, manifestazioni internazionali.

Letteratura, musica, architettura, archivi e biblioteche, artigianato artistico, film, televisione, videogiochi e multimediale; design, festival, arti visive, arti dello spettacolo, editoria, radio, pare siano finalmente arrivate le risorse per salvare questo nostro patrimonio inestimabile, resta ora da vedere come verranno distribuite e gestite!

 

Consulta il sito del programma Europa Creativa

 

unlearningLucio e Anna sono una coppia di Genova come tante altre, hanno un lavoro, una bambina di nome Gaia e una casa in città. Eppure un giorno si rendono conto che la loro vita, le loro giornate, hanno bisogno di qualcosa in più rispetto alle opportunità che ogni giorno offre la realtà urbana.
Decidono allora di intraprendere, tutti e tre, un progetto ambizioso e pionieristico: viaggiare alla scoperta di nuovi modi di vivere, di fare economia e di intendere il rapporto uomo-natura. Capire come si vive in una fattoria biologica, cosa comporta il cohousing, come effettivamente si svolgono le giornate in un villaggio ecosostenibile, provare in prima persona forme alternative di educazione e di apprendimento.

Anche il modo di spostarsi di Unlearning – così si chiama il loro progetto – avverrà in maniera originale e sostenibile, sfruttando le più avanguardistiche forme di baratto: WorkAway, Banca del tempo, Couch Surfing, scambi di ospitalità in cambio di lavori in fattorie biologiche, in strutture culturali indipendenti, baratto di conversazione per imparare le lingue, e così via. Da questa particolare avventura verrà fuori un documentario, un prodotto culturale che sarà il risultato di un’ulteriore forma di scambio e condivisione “dal basso”, basandosi sui finanziamenti del crowdsourcing.

Ma sentiamo dalla voce dei suoi stessi protagonisti i dettagli di questa esperienza, unica nel suo genere.

 

Come spiegate nel trailer di presentazione di “Unlearning”, l’idea del vostro progetto è nata da un pollo a quattro zampe, che è diventato il simbolo della vostra iniziativa. Potete raccontarci l’aneddoto che ha dato inizio a tutto e rivelarci i motivi che vi hanno spinto a intraprendere un’avventura del genere?

Viaggiare e curiosare ha sempre fatto parte del nostro DNA di coppia. L’arrivo di una figlia ha cambiato molti aspetti pratici della nostra quotidianità. Ma quando Gaia ha disegnato un pollo a quattro zampe si è riaccesa la scintilla e ci siamo detti “Perché non coinvolgere anche la bimba?” Meraviglioso… la nostra crescita individuale si è trasformata esponenzialmente a livello familiare. Il pollo a quattro zampe è diventato il simbolo della nostra epoca, dove i bambini di città conoscono gli animali al supermercato, guardano gli speciali in tv e, se va bene, vanno allo zoo.

 

Tutto il vostro viaggio si baserà sull’idea del baratto. Si tratterà di un’esperienza all’insegna dell’improvvisazione e della scoperta o potete già dare delle anticipazioni sull’itinerario, i tempi, le persone che incontrerete?

Viaggeremo con una bimba piccola, non possiamo pensare di fare come Indiana Jones!
Sarà un viaggio pianificato perché non è l’aspetto avventuroso che ci interessa.
Anticipazioni: vi possiamo dire che questi ultimi giorni sono fantastici perché abbiamo ricevuto numerosi inviti da parte di  persone che hanno trovato interessante il progetto, e li ringraziamo. È molto probabile che ci vedrete alle prese con un progetto educativo indipendente, una famiglia di “artisti del riciclo” e… un circo! Abbiamo sei mesi di viaggio e qualche mese per decidere le ulteriori tappe.

 

Quanto e come pensate che “Unlearning” possa essere importante per vostra figlia? E in generale, pensate che il vostro potrebbe o dovrebbe essere un esempio per altre famiglie, per altri bambini?

Noi non pensiamo di essere un esempio, ciascuna persona ha il diritto di vivere come preferisce, ma le famiglie che vogliono sperimentare differenti modi di vivere e di viaggiare troveranno in Unlearning un manuale pratico per affrontare con serenità questo tipo di esperienza.

Noi abitiamo a Genova e, come molte altre famiglie, siamo contenti della nostra vita e Gaia ha i suoi punti di riferimento: amici, giochi, casa. Certo, il confronto con altri stili di vita, non sarà indolore perché metterà a nudo aspetti di forza e di debolezza delle nostre convinzioni, della nostra routine. Come una sorta di depurazione, alla fine resteranno solo le cose più preziose.

 

I finanziamenti per compiere il vostro singolare viaggio si basano interamente sul crowdfunding. Perché un individuo, un’altra famiglia come la vostra, o una collettività dovrebbero finanziarvi?

Bella domanda! E ti ringrazio perché è molto importante spiegare questo passaggio, tanto delicato quanto importante.
Unlearning è un progetto di documentario indipendente. Ti piace il trailer? Puoi acquistare il film in prevendita qui: www.unlearning.it. È come comprare un biglietto del cinema ma vedere il film dopo sei mesi. Capiamo che può sembrare strano, ma il ricavato della prevendita ci permetterà di realizzare Unlearning al meglio! Non chiediamo soldi per organizzarci una vacanza, ma per creare un prodotto culturale a stretto contatto con i suoi fruitori. Il costo del download è di dieci euro ma se proprio vi siamo simpatici, potete richiederci i fantastici gadget creati appositamente per Unlearning: t-shirt per uomo, donna e bambino, fondini per il desktop, stampe e segnalibri magici.
In Francia, e in altri paesi europei il finanziamento da basso (crowdfounding) è un metodo molto utilizzato per progetti di tipo sociale, scientifico, musicale, letterario.
Ci è sembrata una buona idea adottare questa nuova formula di finanziamento anche da noi, in Italia. La nostra scelta è pioneristica ma, se compresa dalla collettività, potrebbe rivelarsi molto utile anche per altri progetti.

 

Intraprendere un percorso del genere non è un avvenimento di tutti i giorni. Cosa pensano le vostre famiglie e i vostri amici di “Unlearning”? C’è un territorio o una realtà che vi sostiene particolarmente?

Familiari e amici sono stati in nostri primi fans! Ma non solo, sono state le prime persone con le quali confrontarci e mettere a fuoco il progetto. Insomma, sono il nostro “territorio amico”.

 

Probabilmente la vostra vita sarà cambiata dopo aver portato a termine un’avventura come questa. Cosa vi aspettate per il futuro, dopo “Unlearning”? Il vostro proposito di sperimentare nuove forme di vita e di economia avrà un seguito?

In realtà i cambiamenti sono iniziati già da ora! “Imparare, disimparare per imparare nuovamente”. E quando rientreremo a casa dopo sei mesi, chissà! Magari saremo felici di ritornare alla nostra quotidianità, oppure… Questo sarà il finale del nostro documentario!

 

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TITOLOE così vorresti fare lo scrittore?untitled

 

 

COSENon è un manuale di scrittura. È un manuale di salvataggio dopo la pubblicazione del primo inedito. Aiuta a salvarsi dalle nebbie della impopolarità, dalle asprezze delle prime stroncature, dalla SDC o Sindrome Da Classifica che, immancabilmente, attanaglia ogni scrittore. È un testo che racconta delle fatiche della promozione, girando per il mondo in lungo e largo, ospitato da piccoli librai entusiasti o in trasferta negli hotel più affascinanti, sotto i fuochi di domande scomode o lusingato da commenti interessanti. Sopravvivere in veste di scrittore professionista non è facile e la vita da post esordienti è costellata da scadenze, blocchi della creatività, premi vinti e premi persi, obblighi sociali e convenevoli. È un testo che insegna che, alla fine di qualunque giro di giostra, a rimanere e a motivare è la passione bruciante e incontenibile per la scrittura declinata in tutte le sue forme.

 

 

COMEL’ironia e la leggerezza sono le caratteristiche portanti di questo libro. L’umorismo pungente e realistico e il tono confidenziale rendono la lettura piacevole e scorrevole. Il lettore segue l’escalation di un autore attraverso i tre gradi che ne costituiscono la carriera (oltre che la macro suddivisione del libro): Brillante Promessa, Solito Stronzo e Venerato Maestro. Per ogni fase ci si addentra, con sincerità, nel mondo di gioie e dolori che uno scrittore deve affrontare, ciascuna con un grado e una sfumatura diversa di intensità.

 

 

proPer apprezzarlo e arrivare fino all’ultimo capitolo non bisogna per forza avere in un cassetto un manoscritto inedito che si sogna un giorno di pubblicare.

 

 

CONTROLeggendolo non scoprirete la formula che mondi possa aprirvi, non verrete a conoscenza dell’incantesimo che vi farà diventare magicamente scrittori, ma avrete a disposizione uno spaccato pratico e divertente di quello che significa fare il mestiere dello scrittore.

 

 

SEGNI PARTICOLARICome racconta nella prima parte del suo volume, l’autore Giuseppe Culicchia ha cominciato la sua carriera nel mondo dei libri e dell’editoria come commesso in una libreria, dove ha lavorato per dieci anni. Una volta diventato a pieno titolo Giovane Scrittore ha lasciato il posto fisso per dedicarsi full time ad uno dei lavori più belli e faticosi del mondo. Poi da Solito Stronzo si è iscritto a Facebook, per promuovere uno dei suoi libri, ma di Twitter dice: “Non ho qualcosa di intelligente e sarcastico e interessante e brillante da dire su tutto lo scibile umano in centoquaranta caratteri e ogni tre minuti. Per me escogitare anche solo un pensierino al giorno da postare su Twitter sarebbe un secondo o terzo lavoro”. Come biasimarlo…

 

 

CONSIGLIATO ATutti quelli che sognano di diventare scrittori, gli amanti dei libri, della lettura e dell’editoria. Ai curiosi dotati di senso dell’umorismo.

 

 

E così vorresti fare lo scrittINFO UTILIore? di Giuseppe Culicchia, Laterza 2013, 14 euro.

falcinelliIl nuovo fenomeno nell’editoria si chiama “graphic novel”: si tratta di romanzi narrati attraverso immagini a fumetti e realizzati grazie al talento di scrittori e illustratori. A parlarci di questa nuova dimensione del racconto è il bravissimo Riccardo Falcinelli, che di grafica e illustrazione ha fatto la sua professione: dal 2000 cura infatti l’immagine grafica di Minimumfax, di Laterza, Carocci e della collana Stile Libero Einaudi, e dal 2002 è professore universitario di grafica e comunicazione visiva.

 

Quale esperto nel campo, ci chiarisci una volta per tutte cosa differenzia un graphic novel da un fumetto o da un romanzo illustrato?
In verità non credo di essere un esperto, ho scritto e disegnato alcuni graphic novel come pezzi di un progetto più ampio di ragionamenti sulla grafica e sulla comunicazione visiva, ovvero i miei libri sono soprattutto degli esperimenti per vedere cosa è possibile fare di una narrazione visiva. Le nomenclature sono – come è noto – convenzionali: fumetto sarebbe quello tradizionale e seriale (strisce o albi con personaggi ricorrenti), graphic novel invece l’opera unica in forma di libro più simile come impianto concettuale alla narrativa tout court, romanzo illustrato poi può essere qualsiasi unione di testi e immagini ma che abbia un “respiro” romanzesco, che si distenda per più pagine con un impianto narrativo largo e non necessariamente concentrato sulla trama. Ma appunto sono convenzioni.

 

Una ricerca dell’AIE attesta che questo genere copre il 10,8% della produzione di fiction. Come spieghi tale grande successo? Lo ritieni un “fuoco di paglia” o un risultato destinato a perdurare e magari crescere nel tempo?
Difficile fare previsioni. Francamente mi pare un numero enorme, in libreria non sembra così massiccia la loro presenza. Però di sicuro i lettori vanno aumentando. Le generazioni più giovani sono più disposte al visivo ma non vuol dire che lo capiscano davvero, anzi alle volte lo danno per scontato, non sono consapevoli dei meccanismi in atto. Quello di cui mi accorgo sempre più spesso è come un grande numero di persone subisca le immagini anziché capirle, ma di questo è anche responsabile la scuola che non allena abbastanza al pensiero critico: si insegna la storia dell’arte (quando lo si fa), si parla di film e di design come elenco di cose belle senza concentrarsi sul ruolo che questi artefatti giocano nella nostra vita quotidiana. Un ruolo che spesso è anche politico, indirizzando gusti e comportamenti.

 

Come prende forma un graphic novel nel tuo studio? Da dove si comincia e dell’aiuto di chi ti avvali?
I libri che ho scritto fino a oggi li ho fatti tutti con Marta Poggi. Mesi e mesi di infinite discussione su come raccontare. Poi a lei il compito delle parole, a me quello delle figure. Come dicevo sono degli esperimenti, nel senso che quello che ci è sempre interessato, oltre la trama, era capire come mettere il relazione testi e immagini in maniera inconsueta. E infatti le nostre storie sono fondamentalmente metalinguistiche: tutte le trame parlano di mass media e di comunicazione globale. Grafogrifo è un rinascimento che funziona come Matrix o come un pamphlet di McLuhan, Cardiaferrania racconta del rapporto tra la nostra identità e quella degli oggetti industriali, cos’è originale e cosa è una copia? L’allegra fattoria è una parodia dell’informazione giornalistica, dei fatti che si pretendono “veri”. Sono tutte storie che parlano della complessità di vivere nella società delle immagini. E poi volevamo fare libri “difficili”, oggi tutto è entertainment, volevamo scrivere libri che chiedono una partecipazione forte del lettori, anche al punto da metterli in difficoltà, di spaesarli, di fargli chiedere dove si stesse andando a parare.

 

“L’Arte delle Felicità” di Alessandro Rak o “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche sono stati graphic novel riprodotti sul grande schermo. Se dovessi trasporre cinematograficamente una delle tue creazioni, quale sceglieresti? Perché?
La risposta è facile: nessuno. Ho sempre voluto scrivere graphic novel che non fosse possibile trasformare in film e per una ragione precisa: trattandosi di lavori concentrati sul codice narrativo volevo trovare un modo di raccontare che non fosse trasferibile facilmente in un altro linguaggio. Quello che trasponi in un film è la trama e niente altro, forse un po’ dell’atmosfera. Ma se la trama è tutt’uno con le strutture visive allora questo diventa difficile. In verità la maggior parte dei graphic novel mi annoia perché sono testi scritti con aggiunte le immagini, i due pezzi sono disgiunti e possono appunto vivere l’uno senza l’altro.

 

Da insegnante di Psicologia della percezione, come leggi questa preponderanza dell’immagine nella comunicazione odierna? Oltre al graphic novel, si è assistito infatti all’exploit delle info grafiche e di social dedicati a foto e immagini. Come mai al giorno d’oggi diamo la precedenza al senso della vista?
Non credo che diamo precedenza alla vista, gli diamo il giusto spazio. La nostra ci sembra una società molto visiva solo perché facciamo il confronto con la cultura ottocentesca che ci ha preceduti e che era maggiormente incentrata sul verbale. Però proprio perché tante immagini ci circondano bisogna stare in guardia, come dicevo non c’è nulla di più pericoloso di quello che diamo per scontato, che ci pare ovvio e innocente. Anzi proprio perché viviamo nella “civiltà delle immagini” dovrebbe essere responsabilità un po’ di tutti saperne di più. Se uno vive in una foresta con animali feroci si munisce di armi adeguate, sarebbe sciocco il contrario. Eppure in tanti vivono circondati dalla comunicazione visiva in ogni momento della loro vita senza nessun tipo di strumento di difesa o di comprensione.

 

Per chi ancora non conoscesse questo genere letterario, quali titoli consiglieresti?
Asterios Polyp di Mazzucchelli e Jimmy Corrigan di Chris Ware. Però bisogna prima aver letto tutto Carl Barks, “Paperino e la scavatrice” è la più grande storia mai disegnata: c’è una finezza psicologica rarissima nei fumetti e c’è quella verità umana di cui sono capaci solo i grandi artisti.

 

Hometown_cartolina_fronte

“Hometown – Mutonia” è il documentario realizzato dal collettivo ZimmerFrei, che indaga la realtà della comunità-villaggio costituita negli anni ’90 da gruppi di creativi cyber-punk, nei pressi di Santarcangelo di Romagna. L’opera viene presentata al Festival Internazionale del Film di Roma e proiettata al MAXXI.
La produzione fa parte di un progetto più ampio denominato “Temporary Cities” e si è avvalso del sostegno del Santarcangelo Festival.
Abbiamo voluto saperne di più interpellando direttamente Anna de Manincor e Massimo Carozzi, tra i componenti di ZimmerFrei, per comprendere meglio quanto da loro documentato.

 

Il documentario Mutonia rientra nel progetto più ampio “Temporary Cities” del vostro collettivo ZimmerFrei. Di cosa si tratta? Quali sono le sue peculiarità?
“Temporary Cities” è una serie di documentari in cui ci dedichiamo a un’area molto piccola di una grande città: una strada di Bruxelles (LKN Confidential), una collinetta che ricopre un centro sportivo in mezzo ai condomini a Copenhagen (The Hill), il quartiere ex-rom di Budapest (Temporay 8th), un bar del quartiere del mercato e del porto a Marsiglia (La beauté c’est ta tête). Sono ritratti molto parziali di territori complessi, in cui le trasformazioni urbanistiche, gli investimenti immobiliari e l’ingegneria sociale che accompagna i progetti di “city branding” stanno cambiando la vita quotidiana e stanno progressivamente rendendo le capitali europee molto simili tra di loro. Non giravamo in Italia dal 2008 (Memoria Esterna, dedicato a Milano) e, dopo il Kunstenfestivaldesarts e il circuito di festival di arte pubblica InSitu, è stato di nuovo un festival di teatro a produrre un nostro film.

 

Mutonia, a differenza delle altre realtà documentate nel progetto, si trova in un piccolo borgo di provincia, Santarcangelo di Romagna per l’appunto. Quali le differenze riscontrate rispetto alle altre comunità presenti invece in grandi agglomerati urbani? Come hanno accolto il vostro progetto i mutoid?
Hometown ha avuto una gestazione lunga, proprio per questa differenza con le altre città. Abbiamo considerato Mutonia un distretto, un quartiere di campagna del paese di Santarcangelo. Non siamo certo i primi a girare un video al Campo, i suoi abitanti sono abituati a veder spuntare operatori e reporter nei momenti più impensati, ma dopo i primi giorni, dato che non accennavamo ad andarcene, il nostro rapporto è cambiato progressivamente. Siamo passati dalla circospezione alla discussione sull’intero progetto, dalle interviste solo audio alle riprese “senza costrutto” in cui ognuno è intento a fare quello che fa senza occuparsi più di dove si trova la camera. Tutto “è campo”. E’ un processo lungo, accidentato e sempre diverso in ogni situazione. Non vogliamo ottenere la “trasparenza”, sarebbe una menzogna, e anche la “realtà” è irriproducibile, si tratta di vivere insieme mentre il film si va facendo e cambia il suo corso con quello che succede al momento.

 

Mutonia nasce in seguito ad un invito lanciato dal Festival di Santarcangelo alla Mutoid Waste Company, che per eseguire le sue performance ha allestito il campo, poi divenuto permanente, richiamando seguaci di questo stile di vita da tante parti del mondo. Che impatto ha avuto la loro presenza sugli abitanti di Santarcangelo? Come si è sviluppato il rapporto tra queste due comunità?
Quando i Mutoid sono arrivati nel 1990 erano dei marziani, traveller cyber-punk provenienti da Londra, Berlino, Barcellona, mescolati alle più diverse compagnie di artisti e teatranti che invadono Santarcangelo ogni estate. Ma in Romagna non si rimane marziani a lungo, è una terra che ama pensarsi popolata da personaggi singolari, i romagnoli non si stupiscono di nulla e la zona tra Gambettola e Santarcangelo è la mecca dei rottamai e customizzatori di motori e carrozzerie fin dal dopoguerra. Al bar del circolo in cui si gioca a bocce e a briscola ci hanno detto: “I Mutoid? Ma son dei patacca!”

 

Al momento l’amministrazione locale di Santarcangelo sta valutando lo smantellamento di Mutonia, decretando in qualche modo il destino di questo particolare villaggio. Quali conseguenze prevedete ne deriveranno per i mutoid? E quali per i santarcangiolesi?
L’ingiunzione di sgombero è arrivata questa primavera, appena dopo la caduta della giunta, come conseguenza della causa intentata da un vicino di campo per “abuso edilizio” e vinta dopo 10 anni di iter legale. Il fatto è che i Mutoid non hanno edificato nulla, ma le loro case mobili, truck, container, pullmann trasformati in laboratori di scultura e meccanica, sono tutti mobili e smontabili, ma non tutti possono essere regolarmente immatricolati. Come ad esempio una casa sull’albero, una doccia all’aperto, un capanno per gli attrezzi, la casetta del cane, delle galline, dei giochi dei bambini… Se il Campo fosse smantellato i suoi abitanti dovrebbero migrare nuovamente sulle rotte dei traveller con le loro case-guscio come seconda pelle, perdendo amici e lavoro (oltre che artisti o musicisti gli abitanti di Mutonia sono anche tecnici specializzati, editor, macchinisti teatrali e scenografi e scultrici come Lupan, KK e SU_e_side realizzano laboratori sul riciclo nelle scuole, installazioni e performance) e scomparirebbe una delle originalità per cui questo piccolo paese è conosciuta anche all’estero: le piadine, il festival di teatro, Tonino Guerra e i Mutoid!
Ma Santarcangelo perderebbe soprattutto dei propri cittadini a tutti gli effetti, il campo è un insediamento temporaneo ma anche un luogo di origine, homeland, una piccola hometown da cui partire e tornare. I figli e i nipoti dei primi arrivati adesso frequentano le scuole locali dalle materne alle superiori. Gli abitanti del campo hanno avuto molte conferme del sostegno degli abitanti del paese e della rete internazionale a cui sono collegati e gli amministratori locali prevedono di poter indire una conferenza di servizi che riunisca Comune, Provincia, Regione e Sovrintendenza ai beni architettonici e paesaggistici e scrivere una norma che dia spazio all’eccezionalità di un’esperienza che fa parte del patrimonio culturale e della storia contemporanea di quel territorio.

 

Con quale spirito presentate il vostro lavoro in un parterre importante e ampio come quello del Festival Internazionale del Film di Roma?
Siamo curiosi di vedere gli altri film presentati insieme al nostro e contiamo sul fatto che il pubblico del cinema contemporaneo, appassionato ed esigente, abbia già da tempo superato le categorie e le “sperimentazioni” che i grandi festival scoprono e premiano in questo periodo.

 

improveverywhereIl marketing è un’attività svolta dalle aziende principalmente per piazzarsi sul mercato, per ottenere maggiore visibilità e quindi maggiore profitto, per rendere più appetibili e commerciali i propri prodotti. C’è anche un marketing diverso, però, più scanzonato e giocherellone, virale, che si basa sull’originalità e sulla creatività, sul coinvolgimento e l’interazione, sullo stupore e anche il divertimento.

Charlie Todd ne ha fatto il cuore del suo business, spingendosi ancora oltre però: il viral diventa puro divertimento e semplice momento per suscitare gioia e sorrisi. Poi lo si può associare ad un’azienda, ad un festival, ad un evento pubblico o privato. Ma questo è un discorso secondario.

Il business di Charlie Todd si chiama Improv Everywhere ed è nato nel 2001: una sera in un bar con un amico, Todd si è finto un attore famoso, firmando autografi, scattando foto con i fan ed elargendo amichevoli pacche sulle spalle a tutti gli ignari avventori del locale. La finzione è riuscita talmente bene che Todd ha lasciato il bar senza svelare la sua vera identità e ha pensato di organizzare scherzi giocosi per mestiere, coinvolgendo anche altre persone. Da allora sono passati 12 anni e Improv Everywhere è decollato, portando le sue originali iniziative nelle piazze, ma anche in prestigiosi festival o persino durante le conferenze di Ted.

Mr. Todd ci tiene a precisare che i suoi non sono flash mob. “Flash mob” è un termine abusato che ormai non ha più una vera identità. Gli eventi da lui organizzati possono durare anche ore, non sempre sono “flash” e non sempre vedono la partecipazione di migliaia di persone, possono anche essere opera di piccoli gruppi. Meglio, allora, il termine “performance”, o ancora meglio “prank”, un misto tra una recita mezza a soggetto e un episodio da candid camera. Altra caratteristiche del progetto è che le iniziative di Improv Everywhere non sono improvvisate. Ci si può iscrivere ad una newsletter che informa sui prossimi eventi che si terranno a New York, scenario principale delle “Improvate”, o nel resto del mondo.

Ci sono, poi, alcuni eventi che si tengono ogni anno, in un determinato mese. Uno è The No Pants Subway Ride che si tiene a gennaio a New York: gli Improviani, vecchi, giovani, bambini, si danno appuntamento nella metro della Grande Mela, si spargono per i vagoni e le stazioni e si sfilano con nonchalance i pantaloni, rimanendo bellamente in mutande. Ed ecco che scatta il fattore “Improv”, ovvero l’improvvisa reazione di divertimento e stupore che cattura la folla allibita di fronte alla scena a cui sta assistendo.

 

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L’altro evento annuale è Black Tie Beach che si tiene, invece, ad agosto. In questo caso i partecipanti devono vestirsi di tutto punto, in abiti eleganti e sfarzosi, e buttarsi allegramente a mare a fare un bel bagno. L’effetto scenografico e coreografico è davvero affascinante.
Di impatto è anche The Mp3 Experiment, anche questo un evento annuale. I partecipanti scaricano un mp3, si radunano in un luogo pubblico, e contemporaneamente lo ascoltano. L’mp3 dà delle istruzioni e i passanti, i turisti, i curiosi che si trovano lì per caso, assistono a delle scene quantomeno singolari.

 

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Una delle iniziative più divertenti è, forse,Movies in Real Life: spezzoni di film celebri riprodotti tra la gente comune. Ecco, allora, la reazione dei normali frequentatori di un bar, quando, ad un tratto, innumerevoli donne nella sala cominciano a ripetere la famosissima scena di Harry ti presento Sally, in cui Meg Ryan simula un orgasmo. Qualcosa di simile è stato fatto, tra gli altri, con Jurassic Park, Matrix, Ritorno al futuro.

 

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Improv Everywhere è un vero e proprio business. Vi si può partecipare come semplici individui interessati a vivere un’esperienza esilarante, oppure si possono assumere i creativi che stanno dietro l’iniziativa. Si può avere da loro consiglio e supporto per organizzare eventi simili o si può chiedere direttamente la loro presenza per rendere indimenticabilmente eccentrico un momento della propria vita privata o un episodio importante nell’attività della propria azienda.

pawel-kuczynskiPawel Kuczynski è un illustratore polacco che ha affidato alla sua creatività messaggi di libertà e giustizia. I suoi disegni sono denunce vere e proprie contro sistemi totalitari, strapoteri travestiti da democrazie, ingiustizie sociali e mancato rispetto dell’ambiente. Per le sue opere ha già vinto 92 premi e riconoscimenti internazionali. Questo creativo è la dimostrazione di quanto l’arte possa essere più incisiva di tante altre manifestazioni di dissenso e ci ricorda quanto è importante preservare la libertà di espressione in ogni sua forma: Pawel Kuczynski affida infatti alle illustrazioni la rivelazione di verità scomode inerenti l’attualità sociale e politica che riguarda tutti.

 

Scoprite tutte i disegni di Pawel Kuczynski sul suo profilo Tumblr

 

TITOLOstoriadoc.comstoriadoc

 

 

COSELucrezia Borgia, Artemisia Gentileschi, Galileo, la principessa Sissi, Claretta Petacci e Mussolini, si possono incontrare tutti in questo sito che permette di vedere documentari di tipo storico. È un marchio di “La storia in rete”, una società di produzione indipendente che si occupa di storia attraverso diversi canali, web e cartacei. Il portale dà accesso a documentari di storia, letteratura e arte, a pagamento, visibili in streaming, attraverso il supporto della piattaforma vimeo.com.

 

 

COMEUsufruire del portale è molto semplice. I documentari sono divisi per epoche storiche dal “Mondo antico” al “Novecento”, più altre tre sezioni dedicate alle biografie, alle figure femminili e ai grandi enigmi della storia. È possibile vederne un trailer e leggerne un breve riassunto, in modo da avere un’anteprima del prodotto prima di acquistarlo. Una volta scelto il documentario è necessario comprarlo appoggiandosi alla piattaforma Vimeo. Questa richiede una breve registrazione e il pagamento nella valuta americana, in dollari. Il costo del video, che si può visualizzare per un periodo di 48 ore, è di 4.99 dollari, ovvero 3.65 euro. È poi possibile commentare il documentario e condividerlo attraverso i social.

 

 

PROCostituisce un modo piacevole e divertente per istruirsi, per conoscere, per appassionarsi di storia. Come specificato dai creatori stessi dell’idea, può anche essere un innovativo strumento da usare a scuola per supportare l’apprendimento di bambini e ragazzi.

 

 

CONTROÈ ancora ristretta la scelta di documentari visualizzabili, soprattutto nella sezione “Mondo Antico” e “Novecento”. Rappresenta un limite anche la fruibilità del prodotto solo per tempo limitato. Magari si potrebbe pensare a due fasce di prezzo, a seconda che si voglia acquistare il video, o solo “affittarlo”. Per far saggiare la qualità del prodotto, si potrebbe anche prevedere qualche articolo gratuito.

 

 

SEGNI PARTICOLARIIl materiale che costituisce il sito proviene dal catalogo della società, che si basa su lavori documentari prodotti in maniera autonoma e mandati in onda dai programmi di reti come La7, Rai, History Channel e Mediolanum Channel.

 

 

CONSIGLIATO AAmanti di storia, appassionati di documentari, insegnanti, studenti, semplici curiosi.

 

 

INFO UTILIhttp://storiadoc.com

ceneandiamoE’ pieno il Palladium; è l’ultima delle tre sere della prima assoluta di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, nel corso del decimo compleanno di Roma Europa Festival.
C’è un’atmosfera calda, il pubblico, sempre di quella tipologia un po’ “intellettuale” che è tipica di Roma Europa, ha un’età media di una trentina d’anni. Mi colpisce sentire che qualcuno sta tornando a distanza di due giorni, portando altra gente: le aspettative si alzano.
Lo spettacolo, coproduzione Roma Europa e Teatri di Roma, è ispirato al romanzo di Petros Markaris “L’esattore”, legato alla vicenda delle quattro pensionate greche che si sono tolte la vita insieme, dopo l’ennesimo taglio alla loro pensione. Si parte da un’immagine precisa del romanzo, ce lo ripetono gli attori stessi più volte: le quattro donne vengono ritrovate, due distese sul letto, due assopite ciondoloni da una sedia.

Tre sedie, un tavolo ed un fondale nero: i quattro attori non utilizzano altro per ricostruire il viaggio interiore che li ha portati ad immaginarsi il momento prima di quel tragico gesto, per ricostruire la scena della bevuta dei sonniferi mortali, dei pensieri che avranno attraversato la testa di quelle donne mentre all’unisono incastravano negli ultimi attimi vite che probabilmente non le avevano unite in precedenza tra loro, quasi a dire che non c’è bisogno di un passato comune per condividere un obiettivo finale ed estremo come quello che hanno compiuto queste donne.

L’operazione che propongono Deflorian e Tagliarini, insieme con Monica Piseddu e Valentino Villa, è di sfondamento della quarta parete di pirandelliana memoria: raccontano il travaglio dell’attore, il suo percorso verso l’assunzione delle sembianze del personaggio giocando sul non saper fingere.

Su questo doppio gioco ognuno fa il suo monologo: si parte spesso dalle azioni quotidiane, di vita nostra.
C’è la tapparella che si rompe e, andando a comprare delle cinghie di ricambio alla ferramenta di fiducia, si scopre che sta chiudendo ed intere famiglie di commessi si interrogano sul loro futuro, ci sono le bollette che non si riescono a pagare, l’affitto improvvisamente insostenibile.
Il quotidiano che diventa esempio del dramma esistenziale è però raccontato senza mai essere esasperato, il pubblico ride.
I corpi degli attori anticipano le parole, sono la vera forza dello spettacolo: Monica Piseddu sorprende il pubblico quando, con un gesto rapidissimo che parte dalle spalle, passa dal comico racconto dei suoi risvegli improvvisi nella notte a ricalcare precisamente l’immagine del romanzo da cui parte lo spettacolo di una della donne sdraiate.

Quasi senza che il pubblico se ne accorga il tavolo, ultimo degli elementi scenografici a fare il suo ingresso in scena, diventa il tavolo delle quattro donne con quattro bicchieri, la bottiglia di vodka per la certezza della creazione di un cocktail micidiale con i sonniferi, le quattro carte d’identità in ordine e le voci che rileggono il biglietto “ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio”. Diventa tutto nero, siamo alla ricostruzione della storia, arriva anche l’azione finale di chiusura, netta, inequivocabile: gli attori ricoprono le sedie, diventano nere anche loro, come la tovaglia sul tavolo, come il fondale del palco.

Lo spettacolo finisce, gli attori sono richiamati tre volte, lo spettacolo che avevano dichiarato di non poter fare perché ci si dispera a casa propria – mica a teatro – da soli e non con della gente che ci guarda, ha inchiodato tutti gli spettatori al palco.

A quanti di voi è capitato di sentirsi dire: “sei tale e quale a tua madre”, “tutto tuo padre”, o ancora ” sembrate gemelli”?
La questione delle somiglianze familiari è un argomento spesso dibattuto, e accade spesso di imbattersi in chi vede similarità da noi magari non condivise.
Ad analizzare la questione, da un punto di vista quasi scientifico, è il fotografo Ulric Colette: partendo da ritratti fotografici di persone legati con rapporti di parentela, ha sovrapposto i volti rintracciando le contiguità dei lineamenti. La raccolta di questi lavori è stata non a caso chiamata “Portraits Génétiques” e mette letteralmente in primo piano le somiglianze tra genitori e figli, sorelle e fratelli, gemelli, cugini.
Ecco a voi il risultato!

Per conoscere tutti gli “esperimenti genetici” di Ulric Colette visitate il suo sito
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Un tumore al seno può cambiare molto la percezione delle cose, ma può farlo anche una foto. È quanto è accaduto ad Angelo e Jennifer, una giovane coppia che ha dovuto affrontare il dolore della malattia. The battle we didn’t choose”, si intitola così il progetto fotografico che Angelo Merendino ha portato avanti durante gli anni di sofferenza della moglie e che è diventato anche un libro.

 

Jen portrait 2007

 

4 anni di calvario registrati attraverso gli occhi di un fotografo professionista, di un marito. Sono scatti intimi, dolci e crudeli insieme. Crudeli perché registrano con precisione il disfacimento di un corpo, il progredire di un malanno incurabile, la sofferenza che cambia i connotati a un volto, che alla fine conserva intatto solo il sorriso. Dolci perché ricordano quanto bella sia in fondo la vita, insegnano come si possa trovare uno scopo e una direzione anche ai giorni peggiori, trasmettono quanto importante possa essere un sentimento. Non si tratta, infatti, solo e soprattutto del resoconto di una malattia, quanto piuttosto della storia di un amore, forte e indistruttibile.

 

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Si erano sposati da appena 5 mesi Jennifer e Angelo, quando la prima ha scoperto di avere un cancro. Poi è stato un susseguirsi di dolori e paure, costellate da speranze e anche qualche gioia. La gioia di sentirsi voluti bene, di sapere vicini non solo amici e parenti, ma anche gente sconosciuta. La coppia ha deciso da subito di documentare quello che le stava accadendo, per dare una forza, una risposta e una speranza a chi, come loro, si trovava ad affrontare la stessa situazione.

Jennifer alla fine non ce l’ha fatta, eppure il suo segno la sua vicenda lo ha lasciato. Dai proventi ricavati dal libro fotografico pubblicato da Angelo Merendino è nata un’associazione no profit, “The love you share”, con lo scopo di fornire assistenza finanziaria ad altri malati di cancro.

 

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D’altra parte il prodotto artistico di Angelo ha avuto subito un incredibile successo di critica e pubblico ed è stato ospitato in mostre allestite a New York, Washington, Roma. Il suo punto di forza sta nell’aver umanizzato un capitolo doloroso della storia di molti. Il suo messaggio finale invita a trovare una luce positiva anche nel buio più profondo.

L’iniziativa di Angelo potrebbe anche non trovare d’accordo tutti. Mettere a nudo così una malattia, una persona che si ama, l’intimità e la privacy di una situazione tanto dolorosa e alla fine pubblicare un libro a riguardo potrebbe risultare esagerato, eccessivo, urtante. Forse l’unica risposta plausibile sta nel fatto che ognuno vive il dolore a suo modo, e che l’arte e la creatività possono servire, in parte, ad affrontare ad alleviare una perdita.

wanderlustLa fotografia è ormai a tutti gli effetti riconoscibile come la settima arte, grazie anche alle nuove tecniche che consentono di ottenere risultati davvero straordinari. A dimostrarlo è per esempio l’opera di Joel Robison, ragazzo canadese che ama definirsi “ritrattista concettuale”. I suoi scatti si caratterizzano per l’assenza di regole nelle dimensioni, proporzioni e movimenti degli oggetti: Joel crea così atmosfere fatate, che molto ricordano la favola di “Alice nel mondo delle Meraviglie”.
Come la protagonista nata dalla penna di Lewis Carroll, così questo giovane fotografo si muove tra tazze di tè, chiavi, libri e le nostre amatissime barchette di carta.

 

Scopri tutte le fotografie di Joel Robison sul suo sito

L’epopea di Banksy a New York è finita. 31 giorni trascorsi nella Grande Mela sono bastati all’anonimo artista di strada per far parlare di sé la stampa internazionale e la gente comune che ne ha seguito l’eroiche gesta da supereroe graffitaro.

Alla fine della sua vicenda americana, quello che resta è la sensazione, spiacevole e rassicurante insieme, che l’arte di strada si conferma un outsider rispetto al senso comune e ai cliché precostituiti. Il rischio corso dallo street artist di Bristol era quello di piegarsi alle leggi di mercato con delle operazioni di marketing plateali, con delle “performance” che poco avessero a che fare con l’arte e con la strada.

E invece no. L’ultimo messaggio di Banksy è stato molto chiaro: un palloncino svolazzante sulla Long Island Expressway che raffigura le lettere bombate della sua firma, e un appello a salvare 5Pointz, un capannone nel Queens le cui pareti sono ricoperte dalle firme creative di straordinari graffitari che rischia di essere demolito per lasciare spazio a un residence di lusso.
Nell’ultima audio guida, posta a commento della sua esibizione del 31 ottobre, Banksy invita a non istituzionalizzare l’arte demandandola a chiese, istituzioni o cartelloni pubblicitari. L’arte vera è quella fatta in strada, libera e anticonformista, l’arte che non serve a decorare ma che semplicemente e con potenza “è”.

 

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New York è una città audace, ma rischia di essere inghiottita anch’essa dal perbenismo e dall’ipocrita buon senso. Banksy aveva già espresso questo parere sulla città che non dorme mai il 27 ottobre, scrivendo un articolo mai pubblicato per il New York Times: il One World Trade Center, il grattacielo in costruzione che sostituisce le Torri Gemelle dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, non è che una dichiarazione della “perdita di nervi” di una città che dovrebbe puntare su ben altro per attestare la propria capacità di ricrescita e la propria coraggiosa natura.

 

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E così, anche dopo il bagno di popolarità newyorchese, Banksy si conferma un personaggio scomodo. Le sue opere sono state cancellate e denigrate, la sua identità è stata ricercata con morbosa curiosità, il suo nome e la sua attività sono diventate per un mese le sorvegliate speciali della polizia di New York. Il sindaco Bloomberg ha definito l’arte di Banksy uno dei tanti modi con cui deturpare delle proprietà private. L’artista mascherato ha eluso, però, tutti gli ostacoli che si sono frapposti al suo traguardo e ne è uscito vincitore.

Oltre a dare una bella lezione di stile e humor a critici bigotti e ortodossi, è riuscito anche nell’intento di prendere in giro il mercato dell’arte. Lo ha fatto prima vendendo originali delle sue opere a Central Park, senza che nessuno ne fosse a conoscenza, poi dando in dono al negozio dell’usato per beneficenza, Housing Works, un suo lavoro che è stato messo all’asta online per più di 600 mila dollari. Si tratta di un quadretto pastorale che l’artista aveva acquistato dal negozio stesso a 50 euro, e che aveva rivisitato inserendovi un soldato nazista che siede pensieroso su una panchina. I soldi ricavati dalla vendita andranno a senzatetto e malati di Aids.

 

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A conclusione di questi 31 giorni di creatività, ironia, originalità, arte, mistero e anticonformismo non possiamo che sperare in una nuova serie di irriverenti performance artistiche ad opera di Banksy o di un suo coraggioso imitatore… chissà dove, chissà quando.

L’idea primigenia di Zuckeberg quando ha ideato Facebook era di creare un portale tramite il quale socializzare e fare rete. Oggi Facebook è diventato una realtà molto più articolata e complessa, e gli usi che se ne fanno si sono a dir poco moltiplicati. Facebook è diventato anche uno strumento per promuovere l’arte e la cultura, per curare la brand image di un’istituzione culturale o di un museo.

L’ha ben capito l’Essl Museum di Vienna, il museo a venti minuti dal centro della città, che raccoglie la collezione di arte contemporanea dell’austriaco Karlheinz Essl. Si tratta di un museo all’avanguardia, che basa la sua policy sul coinvolgimento diretto dei visitatori. Questi non sono semplici fruitori passivi delle opere esposte, ma sono protagonisti, soggetti direttamente coinvolti nelle attività del museo. Persino nelle sue scelte curatoriali.

La mostra LIKE IT!, inaugurata il 23 ottobre, nasce proprio seguendo i gusti degli utenti dell’Essl Museum che hanno scelto le opere da esporre tramite Facebook. L’esperienza social di LIKE IT! si è sviluppata in due fasi. Dal 30 settembre all’8 ottobre, i fan della pagina ufficiale dell’Essl Museum hanno avuto la possibilità di votare, attraverso un like, tra circa 120 opere, di varie tipologie – pitture, fotografie, video –  tutte appartenenti ad artisti della collezione, nati a partire dal 1973. Le più votate sono andate a costituire la mostra allestita nella Great Hall del museo. Una volta scelte le opere era necessario dare inizio alla seconda fase del processo: a tutti gli “Amici” Facebook del Museo è stata data la possibilità di candidarsi come curatori della mostra. 5 elementi sono stati scelti per collaborare con Andreas Hoffer, critico professionista del museo. E così, dopo un workshop intensivo di due giorni, l’allestimento ha avuto inizio e i curatori in erba hanno potuto occuparsi anche dei testi di commento a corredo delle opere.

 

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Un’opera fra tutte è stata scelta ad emblema della mostra, sia perché la più votata, sia perché effettivamente rappresentativa della natura della mostra: Estrella di Patrìcia Jagicza. Si tratta di un dipinto raffigurante una donna che si specchia in un bagno per uomini mentre si sta mascherando. È stata individuata come un simbolo del problema della privacy, del dilemma tra pubblico e privato di cui sono appunto espressione i nuovi mezzi di comunicazione digitale.

 

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L’esperimento con la mostra LIKE IT! è continuato anche durante la Vienna Fair, tenutasi dal 10 al 13 ottobre. I visitatori della fiera sono stati chiamati a votare, stavolta, le 5 opere che costituiscono la parte speciale della mostra “Vienna Fair – The New Contemporary Special Selection”. Il parere degli utenti di Facebook, inoltre, è richiesto per tutto il corso della mostra – che si terrà fino al 6 gennaio – attraverso commenti e like che possono determinare cambiamenti nell’allestimento.

Andreas Hoffer stesso ha spiegato la necessità di portare avanti questo esperimento di curatela social partecipata: è inutile per un museo avere una pagina Facebook, un’identità sui social network, se questi devono essere usati passivamente. I social vanno considerati uno strumento professionale vero e proprio, indispensabile se sfruttato in tutte le sue potenzialità.

 

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Ed effettivamente un prima esperienza del genere l’Essl Museum l’aveva già sperimentata con il progetto “Festival of Animals”. In quel caso erano quattro gruppi a scegliere le opere, a contribuire al catalogo della mostra e a interagire direttamente con gli artisti: i bambini di due scuole, un gruppo di donne della Caritas e i fan Facebook del museo.

Sempre Andreas Hoffer ci ha tenuto a precisare, però, che quello di LIKE IT! sarà un evento “one shot”: è assolutamente vietato ripetersi nel mondo dei social e le domande da porre al pubblico devono variare di continuo. Il caso di questo museo di Vienna va sicuramente tenuto in conto come esempio intelligente di uso dei social media, un modo interattivo e dinamico per coinvolgere pubblici sempre più vasti, soprattutto giovani, all’interno di strutture e processi che spesso sono percepiti troppo settoriali o elitari. Uno sguardo fresco e nuovo sulle cose, specialmente nel mondo dell’arte e della creatività, non fa mai male.

 

Stai passeggiando per le strade di New York, la città in cui tutto – ma davvero tutto – accade e può accadere. Ti trovi a Times Square, detta anche l’ombelico del mondo, quando d’un tratto il flash di una macchina fotografica ti cattura. Ti giri di scatto, giusto in tempo per vedere una figura angelica librarsi in volo, in una posa plastica. No, non si tratta di una visione mistica di fantozziana memoria, ma di un set fotografico vero e proprio, quello di Dancers Among Us” di Jordan Matter.

 

Dancers-Among-Us-in-Times-Square-Jeffrey-Smith

 

Per tre anni questo fotografo statunitense ha immortalato ballerini, “congelati” in pose meravigliose, non dentro una sala da ballo o una palestra, ma nelle strade, nelle piazze, nei luoghi pubblici, sotto gli occhi ammirati della gente comune. Sono immagini fresche, gioiose, che esprimono la magia della dinamica e del movimento, l’eleganza e la bellezza delle forme del corpo umano. Tutto è cominciato con degli scatti per Jeffrey Smith, un ballerino della Paul Taylor Dance Company al quale Jordan ha confessato il suo progetto di fotografare danzatori in luoghi comuni, di raccontare storie attraverso i loro passi di danza e le loro movenze. Jeffrey è riuscito a coinvolgere altri dieci membri del suo corpo di ballo, i primi protagonisti di quello che è diventato un progetto durato quasi tre anni.

 

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Elemento fondamentale di questo lavoro è lo scenario, all’inizio costituito principalmente dalle strade di New York. Le foto di “Dancers Among Us” sono tutte naturali, e la posa che il fotografo coglie è reale, non è il frutto di modifiche apportate con programmi grafici. Jordan gira per la città alla ricerca della location adatta a far emergere in maniera più potente la natura dell’artista che posa per lui. Al ballerino è richiesta solo molta pazienza. Si tratta di un processo creativo che ha i suoi tempi e che artista e fotografo devono compiere assieme. L’ultimo anno Jordan ha cominciato a girare anche per altre città americane, come Philadelphia, Washington o Santa Monica. Prima di recarvisi, twittava e postava su Facebook la sua prossima destinazione, chiamando a raccolta i ballerini interessati. E le risposte alla sua chiamata sono state numerose, tanto che i soggetti immortalati arrivano a più di 200.

 

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Da questa incredibile esperienza, portata avanti con pazienza e tenacia, è nato un libro, dal titolo omonimo al progetto, “Dancers Among Us”, che ha raccolto gli scatti migliori dei tre anni vissuti dal fotografo accanto ai suoi ballerini. L’ostacolo più difficile per Jordan è stato fare una cernita delle foto create, e dover così escludere alcuni danzatori dal suo progetto.
Il volume pubblicato è divenuto in pochissimo tempo New York Times Bestseller e ha ottenuto l’Oprah Magazine Best Book 2012 e il Barnes & Nobles Best Book 2012. Il segreto del suo successo, a detta di critici e lettori, sta nel suscitare in chiunque guardi quelle immagini un sorriso, un lampo di meraviglia, un pensiero positivo, un sospiro felice. Jordan Matter ha raggiunto il suo scopo, insomma: quello di far rivivere a tutti lo stupore divertito che prova un bambino davanti alle cose semplici e belle, lo stesso stupore che dimostra di avere suo figlio quando, giocando con una macchinina, immagina storie e avventure grandiose

 

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La vicenda di Jordan Matter non finisce qui, però. Dalla prima esperienza con i ballerini è nato il sequel Athletes Among Us, che si concentra stavolta sulla potente fisicità degli sportivi, degli atleti, anche loro immersi in contesti ordinari. D’altra parte neanche “Dancers Among Us” è giunto al suo ultimo capitolo. Anzi, quei tre anni girando per l’America sono stati solo un inizio, e adesso il progetto vuole piroettare verso altri lidi, verso altri continenti, verso nuovi scenari.

 

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Dancers Among Us goes around the USA in Ninety Seconds from Jordan Matter on Vimeo.

Claudia-Rogge-LostClaudia Rogge è un’artista tedesca che pone al centro del suo lavoro la figura umana. Per realizzare le sue opere ricorre a foto e tecniche digitali capaci di metter in risalto i profili dei corpi di uomini e donne, attraverso cui compone mosaici complessi che rapiscono lo sguardo. La sua ultima serie, intitolata “Lost in Pradise”, ritrae in particolare scene composite volte a raffigurare un paradiso celeste colmo di anime fisiche intente a godere della pace ultraterrena o condannate alla dannazione eterna. La luce e i colori ottenuti dalla Rogge ricordano molto gli affreschi rinascimentali.

 

Scopri tutte le opere di Claudia Rogge sul suo sito 

 

 

La storia dell’arte rischia di essere ridotta o addirittura eliminata dai programmi di formazione scolastica. La petizione per contrastare la decisione presa dal Governo con la Riforma Gelmini del 2010 raccoglie, specialmente negli ultimi giorni, sempre più firme, sempre più adesioni.

Anche Stefano Guerrera, giovane informatico pugliese di 25 anni, si è interessato al problema e ha pensato di risolverlo a modo suo. È nata così la pagina Facebook “Se i quadri potessero parlare” che, messa online solo il 18 ottobre, oggi conta già circa 180mila like. L’idea balenata in mente a Stefano è stata molto semplice, ma decisamente vincente: le opere d’arte più famose di artisti come Leonardo, Botticelli, Caravaggio, vengono corredate da una frase comica che ne stravolge totalmente il senso agli occhi dello spettatore. Il linguaggio usato è il dialetto romano che inevitabilmente fa ridere, come spiega lo stesso Stefano che da sei anni vive a Roma.

 

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Il risultato ottenuto con questo esperimento è davvero esilarante e, effettivamente, conferma un’esigenza che si è venuta palesando altre volte negli ultimi anni: quella di rendere l’arte una materia comprensibile a tutti, un campo che deve vantare i suoi specialistici e i suoi studiosi, i suoi critici e i suoi esperti, ma che può anche rivolgersi ad un pubblico vasto e variegato.

 

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Il blog L’arte spiegata ai truzzi di Paola Guagliumi, ad esempio, ha iniziato già un anno fa ad affrontare la questione, presentando spiegazioni in romanaccio dei più grandi capolavori dell’arte moderna e contemporanea. Anche in questo caso il risultato è divertentissimo, e al contempo anche abbastanza istruttivo. La Guagliumi è una studiosa di storia dell’arte e una guida turistica e le opere che presenta sono trattate attraverso un lato didattico serio, che si nasconde dietro alla forma faceta.

 

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È del 2008 un altro tentativo di desacralizzare la storia dell’arte e di renderla familiare agli occhi dei più: Understanding art for geeks, un blog in cui ancora una volta quadri famosi vengono parodiati in versione “geek”, modificati appositamente per gli amanti di internet e della tecnologia.

 

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Un esempio cartaceo che sperimenta un modo non convenzionale di spiegare la storia dell’arte è rappresentato, poi, dal volume di Mauro Covacich del 2011, L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, un testo ironico, ma molto completo per approcciarsi all’arte contemporanea senza i pregiudizi che portano a non considerarla espressione artistica vera e propria, o comunque non al livello dei grandi maestri del passato, per perizia tecnica e comunicazione estetica.

Tornando al fenomeno degli ultimi giorni, “Se i quadri potessero parlare”, si tratta ovviamente di un gioco. Eppure, potrebbe rivelarsi non fine a stesso. Di sicuro serve ad avvicinare tutti, soprattutto i più giovani, ad un mondo dal quale spesso si sentono distanti, anche solo reintroducendo nella loro iconosfera rappresentazioni che al giorno d’oggi sono sempre più escluse dall’immaginario collettivo, perché sostituite da cartelloni pubblicitari, divi del cinema, o appunto, espressioni visive appartenenti al mondo web.

Intervista a Caterina Mosca (Bologna Water Design)

A un mese della chiusura della terza edizione di Bologna Water Design (BWD), vi proponiamo un’intervista in esclusiva a Caterina Mosca, fondatrice di Mosca Partners, da anni attiva nel mondo del design, e tra gli ideatori di Bologna Water Design, manifestazione dedicata al design dell’acqua che mette in mostra progetti sviluppati da aziende di ceramica in collaborazione con artisti, designer e architetti.

 

Come nasce il concept di BWD?
Si tratta di una manifestazione di progetti di design legata al tema dell’acqua, nata con l’idea di creare un evento parallelo alla fiera annuale di ceramica di Bologna (Cersaie), per trattare temi tipici della fiera ma allo stesso tempo con un taglio culturale, ampio, trasversale, che uscisse dalle logiche commerciali delle manifestazioni fieristiche. Un ‘Fuori Fiera’ che riuscisse quindi ad essere complementare alla Fiera stessa, ma che avesse una sua identità forte e che potesse in prospettiva vivere anche autonomamente. Il tema dell’acqua ci è subito sembrato quello giusto, anche per le sue implicazioni sociali legate alla futura carenza di questo elemento e al conseguente sforzo di educare il pubblico a consumi minori e consapevoli.

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Jewel Light, progetto di Sergio Brioschi con Pozzi Ginori

Abbiamo cominciato con una prima edizione nel 2011 per verificare la fattibilità del progetto in cui abbiamo coinvolto gli showroom esistenti in città, ma poi, fin dallo scorso anno, abbiamo capito che era importante avere un cuore centrale della manifestazione in cui poter controllare e gestire in modo diretto i contenuti. Così abbiamo cercato una location importante nel centro della città e abbiamo trovato questo meraviglioso “Palazzo dei Bastardini”, chiuso da vent’anni, di proprietà della Provincia. Lo abbiamo chiesto e ottenuto a condizione che sostenessimo tutti gli oneri per renderlo agibile. Così è stato e lì abbiamo dato vita ad una edizione di grande successo, chiamando tanti progettisti a realizzare le loro idee e trovando le aziende giuste per sostenerli. Questa idea, difficile e complessa, di partire dai progetti invece che dalle aziende è stata la chiave vincente di BWD: quella che garantisce la qualità, la spettacolarità, l’emozione generata dai progetti.

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 Fontane inconsapevoli, progetto di Studio Benaglia + Orefice con Geberit

 

Bologna Water Design in cifre – quali sono, ad oggi, i risultati della manifestazione?
Il numero di aziende interessate e coinvolte è cresciuto molto velocemente. Siamo passati dalle dieci aziende della prima edizione alle trenta di quest’anno. Il numero degli artisti è raddoppiato da dieci a venti. Certamente un aumento significativo, ma occorre trovare spazi più grandi se si vuole far diventare BWD una grande manifestazione di livello internazionale.
L’evento – ad accesso libero – è stato inoltre molto ben accolto dal pubblico. E’ molto difficile in una manifestazione sul territorio senza recinti né controlli dare numeri verificabili. La nostra stima realistica e prudente è di qualche migliaia il primo anno, circa 10.000 il secondo e oltre 15.000 quest’anno. Ma quel che più conta a nostro avviso non è la quantità, ma la qualità del pubblico che ha visitato la mostra. Nei giorni lavorativi, dal lunedì al giovedì, un pubblico professionale di livello alto e poi il venerdì sera e il sabato i bolognesi attenti e curiosi alle iniziative culturali della città. Siamo molto soddisfatti della qualità del pubblico che ha visitato la manifestazione.

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 Pinnacle, closing party – Chiostro ex Maternità

Ma c’é di più. L’impatto in termini di riqualificazione del patrimonio storico-culturale è stato altissimo. Ci teniamo molto a sottolineare questo aspetto. Ci pare una cosa importante che una manifestazione che dura pochi giorni non disperda le energie e l’investimento fatto ma che lasci alla città un valore: quello di riscoprire spazi abbandonati della città come Palazzo Bastardini, riaprirli e utilizzarli per manifestazioni culturali riqualificando il patrimonio storico.
Inoltre, i contenuti della manifestazione hanno portato e speriamo portino sempre di più a Bologna una opportunità in più di conoscenza e diffusione della cultura legata al mondo del design e, nel caso specifico, visto che il tema è quello dell’acqua, si possa contribuire seriamente a far nascere opportunità di ricerca progettuale e una consapevolezza diversa sul consumo di tale bene.

 

Quali le opere d’arte più interessanti che hanno avuto un “seguito” dopo l’evento?
Il caso più clamoroso è certamente quello del progetto di Kengo Kuma dello scorso anno: un paesaggio in pietra serena di circa 100 mq. realizzato da Il Casone.

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L’installazione è stata smontata a Bologna ed è stata richiesta e successivamente donata alla città di San Paolo in Brasile per diventare il centro di una Piazza.
Il vostro potrebbe essere definito un business model “win-win” che ricompensa voi, l’artista/designer/architetto e le aziende partecipanti alla manifestazione – in cosa consiste esattamente il vostro business model? Qual è il ritorno per voi, l’azienda e l’artista?
Per noi l’idea è soprattutto quello di continuare una forte interazione con il mondo del progetto in senso ampio (design e architettura ma anche di altri settori della creatività come la musica e il cinema). L’azienda remunera direttamente l’artista con cui noi lo mettiamo in contatto e con cui l’azienda sviluppo il proprio progetto da portare alla manifestazione.
E’ in questo mondo che Mosca Partners lavora da sempre. Fare progetti di qualità che creino occasione di incontro e valorizzazione del lavoro, crediamo che sia fondamentale: i ritorni sono sia in termini di relazione che di opportunità di lavoro. BWD è poi soprattutto un progetto di comunicazione, con un posizionamento molto preciso che valorizza le eccellenze e vuole tenere un profilo molto alto. I ritorni quindi sono per tutti, artisti e aziende, di visibilità, valorizzazione del lavoro e opportunità di business anche a livello internazionale.

 

Si sta sempre più sviluppando una nuova tendenze nelle politiche di innovazione a livello europeo che consiste nel promuovere la cultura e la creatività come fattore di innovazione (i cd. creative spillovers). Il vostro è un ottimo esempio di collaborazione riuscita tra mondo dell’arte e industria tradizionale che permette al cliente potenziale di offrire un’esperienza più che un semplice prodotto. Secondo la sua esperienza, come si potrebbero stimolare gli effetti di “spillover” creativi presso aziende tradizionali oltre il settore della ceramica?
Abbiamo sempre pensato che, soprattutto in certi settori, la cultura sia un motore fondamentale dell’economia. Non c’è design senza innovazione e promuovere la cultura è sicuramente un modo fondamentale per alimentare e sviluppare la creatività e l’innovazione. Aldilà della contemporaneità del Cersaie con la nostra manifestazione, che ovviamente facilità la visibilità nel settore del bagno e della ceramica, pensiamo che se riusciremo a fare un buon lavoro nei prossimi anni questa manifestazione potrà rappresentare per gli operatori di settori diversi una grande opportunità per avvicinarsi al mondo del progetto e della creatività. BWD vuole diventare una vetrina trasversale e uno stimolo per tutti coloro che vogliono scoprire il valore di questa cultura.

 

A quando la nuova edizione di BWD?
Settembre 2014 – in contemporanea con il prossimo Cersaie.

 

hana4Non troppi anni fa alle donne era vietato indossare i pantaloni, e un uomo vestito in gonnella avrebbe suscitato piuttosto scandalo. Oggi le cose sono un po’ diverse, ma lo scambio di vestiti tra uomini e donne continua a suscitare curiosità, interesse, divertimento e, a volte, anche un po’ di scalpore.

E’ quanto ha sperimentato Hana Pesut, una fotografa canadese ventenne, portando avanti il suo progetto, Switcheroo. Si tratta di più di 200 fotografie che Hana ha scattato principalmente a Vancouver, ma anche a Vienna, Barcellona, Osaka, Parigi, San Francisco, New York, Los Angeles, Palm Springs, Austin, Montreal. Il soggetto di tutte le foto è una coppia, principalmente di fidanzati, che si scambia i propri abiti. Sono i protagonisti stessi della foto a scegliere gli abiti e la location. La Pesut, che ha da poco pubblicato un volume che raccoglie gli scatti più belli, non vuole dare un senso univoco alla sua ricerca artistica, ma preferisce che ciascun osservatore dia il significato che vuole al gesto, molto intimo, di mettersi nei panni degli altri.

Per saperne di più, è possibile visitare il blog di Hana Pesut.