TITOLOThe Art Collecting Legal Handbookthearthandbook

 

 

COSEChiunque abbia a che fare in modo approfondito con il mondo dell’arte sa quanto sia difficile barcamenarsi tra la legislazione dei beni culturali. Una volta varcati i confini di una nazione, infatti, le normative riguardanti arte e cultura cambiano, così come cambia la tassazione, le leggi che regolano copyright e diritto d’autore, la natura e la forma dei contratti d’artista. The Art Collecting Legal Handbook interviene proprio in aiuto di coloro che in un modo o in un altro hanno a che fare con il mercato dell’arte, presentando degli approfondimenti riguardanti i Paesi europei, ma anche i mercati internazionali di Stati Uniti, America Latina, Cina, Giappone, India, Canada. Una panoramica completa e variegata che colleziona in maniera agevole i punti principali inerenti la legislazione di ogni singolo Paese analizzato.

 

 

COMEIl volume è introdotto da alcuni paragrafi di presentazione del lavoro, che si soffermano anche su argomenti specifici come l’evoluzione del mercato dell’arte o la natura del contratto d’autore. Si entra, poi, nel vivo del testo con l’Argentina per finire con gli Usa e New York, in un’analisi dei principali mercati dell’arte internazionale che viene svolta sotto forma di intervista. I curatori del volume, infatti, Bruno Boesch e Massimo Sterpi, hanno raccolto una serie di interviste ai principali esperti di legislazione culturale del territorio preso in considerazione. La tipologia di domande è sempre la stessa e divisa per settori: “cultural heritage and art market”, “purchase and export”, “peaceful enjoyment”, “sale”, “art philantropy”, “tax” e, per finire, una parte dedicata alle informazioni pratiche e ai contatti.

 

 

PROSi tratta di un testo davvero completo, non solo dal punto di vista “geografico”, in quanto analizza la legislazione di un esteso ventaglio di Paesi, ma anche dal punto di vista contenutistico in sé, trattando un’ampia varietà di argomenti, inerenti sia il diritto comparato dei beni culturali che il mercato dell’arte. La forma dell’intervista, snella e dinamica, facilita la lettura e la comprensione di argomenti che, altrimenti, potrebbero risultare ostici ai non specialisti del settore.

 

 

CONTROIl testo è reperibile solo in inglese e non vi è ancora una traduzione in lingua italiana, o in altre lingue.

 

 

SEGNI PARTICOLARIAlla fine del testo, si trovano i dettagli di contatto di tutti gli intervistati e dei loro uffici legali, di cui sono riportati indirizzo, numeri di telefono, e-mail e sito internet.

 

 

CONSIGLIATO AGallerie, musei, fondazioni, case d’aste, collezionisti, artisti, acquirenti o venditori di opere d’arte, ereditieri, studiosi e studenti di economia della cultura, di diritto, di arte e beni culturali.

 

 

INFO UTILIThe Art Collecting Legal Handbook, a cura di Bruno Boesch e Massimo Sterpi, Thomson Reuters, Londra, 2013.

Un recente pronunciamento del Tribunale di Prima Istanza della UE (1), precisa e conferma alcuni principi relativi ai rapporti tra un MARCHIO EUROPEO depositato, e il nome di un SITO WEB.
Nel 2007 un noto esponente politico italiano effettuava istanza di deposito di un marchio relativo a un possibile nuovo soggetto politico (2).
Alla registrazione del marchio si opponeva, nei primi mesi del 2008 il titolare del sito omonimo rispetto al naming del marchio, a suo dire attivo già dall’anno 2004 (3).
Le norme sulle attribuzioni dei nomi di dominio prevedono infatti il principio “first come, first served” (traducibile con il “chi primo arriva, alloggia”). Inoltre il nome a dominio conferisce al registrante un diritto di “preuso” simile, negli effetti, a quello dei marchi di fatto.
La registrazione di un marchio simile o estremamente confondibile con un nome a dominio già utilizzato appariva quindi come una violazione di tali diritti.

Nella istruttoria svoltasi a cura della Commissione Reclami dell’ UAMI – Ufficio Armonizzazione mercato interno – che è l’agenzia dell’Unione europea competente per la registrazione di marchi, disegni e modelli validi in tutti i 27 paesi della UE (4) – in merito alla opposizione alla registrazione del suddetto marchio, decideva di applicare al caso i “normali” criteri commerciali: dimostrazione pratica di attività commerciale svolta nel periodo 2004 – 2008: fatturato di beni o servizio prodotti e scambiati tramite il sito web, rinomanza dello stesso, rapporti con clienti o consumatori.

Ebbene: nulla di tutto questo. Anzitutto il sito afferiva a un gruppo politico. Nessun “merchandising” di prodotti era realizzato, né fatturato o fund-raising raccolto per il gruppo stesso. Inoltre il sito era in concreto privo di contenuti, perché automaticamente reindirizzato a quello “principale” del movimento politico (5).
Ritenendo che il sito internet non rispondesse a tali requisiti dal momento che non svolgeva una effettiva attività di carattere commerciale né alcuna attività fatturabile, UAMI respingeva la opposizione presentata.

Respinta l’opposizione, il movimento politico referente del sito, adiva il Tribunale della Unione Europea, deducendo falsa applicazione dei principi posti alla attribuzione dei nomi a dominio da parte della “Italian Naming Authority NIC” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ma il Tribunale confermava il rigetto delle opposizioni già emanato dalla Commissione Reclami UAMI.
Il non aver mai effettuato “attività commerciale” è stato determinante per la decisione del Tribunale Europeo e del resto, è principio analogo a quello esistente nei marchi: la decadenza per non uso (decorsi 5 anni dal deposito), e (nel caso di mancata attuazione) dei brevetti: non uso e e non attuazione, insomma, inficiano tutto il settore delle “privative titolate”.

I marchi, con la procedura di deposito, attribuiscono al titolare un “monopolio legale” nel o nei settori merceologici scelti e richiedono il presupposto della effettività, diciamo la “reificazione della tutela” per i fini effettivamente conseguiti, pena la sua decadenza.

Ma il caso in questione traspone questi principi al settore dei nomi di dominio. E, in fondo, pone in dubbio alcuni argomenti, in conflitto di norme con il nostro “codice della proprietà industriale” di recente emanazione (2005) che all’articolo 22 stabilisce il principio di unitarietà dei segni distintivi (6), che, il Tribunale UE sembra superare, difendendo così il ruolo e la funzione delle istituzioni comunitarie come anche quello delle istituzioni nazionali quali l’UIBM – Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.
Certo sono enti cui si accede liberamente, ma la tutela offerta dalle procedure di deposito impone di sottostare … a una condizione pregiudiziale: il pagamento delle varie centinaia di euro che, per ogni singolo deposito, è prevista dalla tariffa (7).

Emerge così, ancora una volta, la natura intrinsecamente “commerciale” della costruzione europea, a lungo chiamata in Francia, Belgio e Lussemburgo semplicemente “ le marché commun”, natura che – anche in tema di registrazione di marchi – si dimostra poco acconcia a risolvere problematiche di titolarità quando entrano in gioco i “I PRINCIPI” e non un fatto economico effettivo, documentabile, misurabile.

Chissà, viene da chiedersi, se il “Movimento 5 Stelle” avrebbe avuto ragione nei confronti di un identico marchio concorrente, posto che, stando a voci di cronaca (8), la natura commerciale del sito web, accreditatasi grazie ai proventi pubblicitari milionari, integra certamente il cosiddetto fine commerciale di profitto. Questo, nel quadro normativo comunitario, avrebbe certamente fatto presa, vista la “mercatoria” visione molto commerciale del Tribunale UE in tema di marchi e siti web, che emerge da questa decisione.

 

Note:

1. Sentenza 1a/05/2013 Tribunale Unione Europea nei ricorsi riuniti T 321 e 322/11.
2. “Partito della Libertà” richiesto da M.V. Brambilla quale rappresentante della Associazione Nazionale Circolo della Libertà, che agiva per mandato di Silvio Berlusconi.
3. Signor Raffello Morelli – sito: “liberali.it” e “partitodellaliberta.it” associazione politica federazione dei liberali, presentavano opposizione il 10/10/2008.
4. I provvedimenti della Divisione Opposizioni (avverso il marchio denominativo, indi avverso il marchio figurativo) sono datati 10/5/2010; questo veniva impugnato da Morelli avanti della Commissione di Ricorso il 14/7/2010 che decideva negativamente il 17/3/2011.
5. “liberali.it”
6. L’art. 22 delCodice della Proprietà Industriale stabilisce che : “E’ vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell’attività economica o altro segno distintivo (1) un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”.
7. Le tariffe per il deposito di marchio sono consultabili on line al sito UAMI 
8. Il sole 24 Ore ipotizza per ben 5 milioni € annui i ricavi lordi del sito web “beppegrillo.it”

 

 

 Paolo Bergmann è avvocato esperto in diritto d’autore

 

 

 

 

“Storie di cartone” è un laboratorio itinerante di editoria sorto con l’obiettivo di coinvolgere i partecipanti nella creazione artigianale di libri. L’idea editoriale che sta alla base di questo progetto è l’esperienza delle latinoamericane editoriales cartoneras, nate con la pioniera Eloísa Cartonera a Buenos Aires nel 2003, a seguito della disastrosa crisi economica argentina. L’attività di questa casa editrice è servita da modello per molte altre case editrici indipendenti, spuntate prima in tutta l’America Latina e più di recente anche in alcuni paesi europei, con l’intento comune di abbattere il prezzo di produzione dei libri e democratizzare la lettura, facilitando l’avvicinamento alla letteratura per il più ampio pubblico possibile, fuori dalle logiche di mercato dettate dalle multinazionali del libro.
I principi che regolano l’attività editoriale delle cartoneras si riflettono nelle semplici istruzioni di questo “laboratorio di editoria popolare” torinese, come si legge sulla pagina web dedicata: riusa, crea, leggi. Durante il laboratorio, aperto a tutti gli interessati e gratuito, ogni partecipante crea la copertina del libro con vari materiali di recupero come carta, cartone, fotocopie, tessuti colorati, ritagli di giornali e riviste. Terminata la copertina, si inseriscono le fotocopie all’interno della copertina e si assembla il libro con una semplice tecnica di rilegatura a mano. Il laboratorio prevede una piccola pausa caffè o aperitivo in cui viene letto il libro ad alta voce per tutti, perché possa servire da ispirazione per la creazione della copertina. A laboratorio finito, ogni partecipante può portarsi a casa il proprio pezzo unico d’arte e di letteratura.
La lettura del libro durante il laboratorio è possibile perché il genere letterario scelto dagli organizzatori per questa iniziativa è il racconto, molto spesso trascurato dall’editoria tradizionale. Fin’ora i libri tradotti e realizzati durante questi incontri sono due, entrambi inediti in Italia: Berkeley o Mariana dell’universo della scrittrice argentina Liliana Heker e Dochera, del boliviano Edmundo Paz Soldán. Gli autori sono latinoamericani e la scelta è vincolata al permesso dell’autore di pubblicare l’opera cedendo i propri diritti d’autore gratuitamente, uno dei principi fondanti dell’iniziativa cartonera. Questi libri, nelle intenzioni degli organizzatori, vogliono rappresentare il primo passo di un progetto editoriale più ampio e definito, pensato per tradurre e pubblicare molti altri racconti di autori ispanoamericani.
La prima edizione di “Storie di cartone” si è conclusa e ha all’attivo cinque incontri in diverse associazioni culturali di Torino e del cuneese, due libri e moltissime fotografie colorate, che mostrano le copertine dei libri realizzate dai partecipanti e gli incontri nei vari centri culturali.

Per vedere i risultati dei laboratori e per tenersi aggiornati su nuove iniziative consigliamo di tenere d’occhio la pagina web dell’iniziativa.

 

L’avvento delle Nuove Tecnologie sta profondamente modificando anche il concetto di “Guerra”: storicamente (e filosoficamente) siamo portati ad associare al concetto di “Battaglia” o di “Guerra” l’immagine di uno scontro fisico tra due parti/eserciti contrapposti che si fronteggiano su un territorio fisico ben definito. Non che questa immagine tradizionale sia scomparsa (ed è da aggiungere: purtroppo), ma ad essa si affiancano le nuove guerre tecnologiche, che si svolgono nel non-luogo per eccellenza, cioè il cyber-space, senza che sia possibile individuare il luogo fisico dello scontro o gli stessi combattenti e con l’utilizzo di armi rappresentate da algoritmi, virus informatici, etc ugualmente dannose come quelle che esplodono o fanno fuoco… (si pensi a vere e proprie guerre militari che si stanno combattendo ora tra gli Stati a colpi di attacchi a sistemi informatici da parte di spie/hackers, come l’attuale scontro tra USA e Cina).

Anche le cosiddette “guerre commerciali” – non meno virulente di quelle militari – che si svolgono ora a livello globale e nei mercati digitalizzati hanno profondamente mutato fisionomia rispetto al passato. Ne è lampante esempio lo scontro tra Apple e Samsung, i due più importanti player mondiali nel mercato dell’Information Technology. L’obiettivo di questa “guerra” è il controllo monopolistico del mercato mondiale dell’IT (con buona pace dei principi di libera e leale concorrenza). Le nuove armi di questa guerra (che comunque non è limitata alle sole Apple e Samsung: si pensi alle numerose controversie giudiziali avviate o subite da Nokia, Google, etc) sono rappresentate dai diritti di Proprietà Industriale, con particolare riferimento ai brevetti tecnologici (ma anche al design ed ai modelli), mentre il terreno di scontro sono le aule dei tribunali sparse per il mondo. E’ notizia di questi giorni la condanna di Samsung ad opera di una giuria di un Tribunale USA a risarcire Apple con 1,05 miliardi di dollari per aver l’azienda coreana copiato il look e le funzioni dell’IPhone e violato moltissimi brevetti nel frattempo richiesti e ottenuti da Apple.

Tuttavia, un nuovo fenomeno delle guerre commerciali del XXI secolo è anche quello di non avere un vincitore certo. Per chiarire questa affermazione, si pensi che mentre il Tribunale USA emetteva la condanna di Samsung, dopo qualche giorno la Corte Distrettuale Centrale di Seoul ha pubblicato la propria sentenza in un processo per molti aspetti simile a quello californiano, e ha stabilito che entrambi i contendenti hanno violato i brevetti altrui (anche se nessuno ha copiato l’altro).

Poi, ancora dopo qualche giorno, un giudice del Tribunale distrettuale di Tokyo ha stabilito che Samsung non infrange alcun brevetto di Apple nella sincronizzazione di musica e video con i server. Senza contare, poi, che il confronto nelle aule di tribunale potrebbe riprendere presto. Samsung ha fatto sapere che oltre a presentare appello avverso la sentenza di condanna emessa dal Tribunale USA, attaccherà Apple se il prossimo iPhone avrà connettività Lte di 4a generazione (che è uno dei tool più attesi del nuovo Iphone 5…), mentre anche in Australia è aperto il duello tra i due colossi dell’IT. In questo fenomeno incide anche un aspetto che ci riporta alle guerre tradizionali: il territorio.

Se in passato il territorio incideva sull’esito delle battaglie per la sua conformazione geografica e fisica (si pensi ai 300 Spartani che tennero testa all’esercito Persiano sfruttando la famosa gola delle Termopili), oggi il territorio (inteso come luogo dove ha sede il tribunale che decide) incide sull’esito delle guerre commerciali tecnologiche: non si può non notare come le sentenze emesse abbiano un che di nazionalistico e protezionistico (un Tribunale USA dà ragione ad un’azienda americana, un tribunale coreano opta per un “pareggio”, un altro dell’estremo oriente dà ragione ad un’azienda coreana…).

E’ inoltre interessante notare anche che la velocità dei progressi tecnologici (e la rapida obsolescenza dei prodotti nel mercato dell’elettronica) rispetto alla lentezza dei sistemi giudiziari renda del tutto inutili – a volte – appelli e giudizi di secondo o terzo grado che avrebbero esiti giudiziari in tempi in cui i prodotti sono magari usciti dal mercato (tanto che la causa coreana, ad esempio, ha riguardato l’IPhone 3GS e le parti del processo hanno già dichiarato che non sono interessate a fare appello, vista l’obsolescenza del prodotto).

E infine, non ci si può esimere dal chiedersi quale efficacia pratica abbia la protezione giuridica conferita dai brevetti concessi (anche nell’ambito di Trattati internazionali che dovrebbero garantire una certa uniformità globale della protezione nell’ambito di sistemi giuridici internazionali omogenei): in primo luogo, l’effettiva protezione appare più che altro legata alla interpretazione di Tribunali e Giurie popolari (a proposito: una giuria di comuni cittadini che competenza può avere nello stabilire la violazione di brevetti tecnici di elevata complessità??). In secondo luogo, è davvero singolare che il portavoce della giuria nel caso californiano abbia dichiarato che ciò che ha portato i giurati a stabilire un maxi risarcimento di 1,05 miliardi di dollari in favore di Apple sia stata  non una complessa comparazione tra brevetti ma una singola email che il Management di Google inviò a quello di Samsung e il cui contenuto esprimeva semplici dubbi sui rischi per l’azienda coreana a causa di una certa somiglianza con i prodotti e le funzionalità di devices Apple….

Le nuove guerre commerciali dei mercati globali e digitalizzati si combattono dunque anche con nuovi e strani alleati, se è vero che la battaglia tra Apple e Samsung sembra essere stata di fatto decisa dall’opinione di un terzo – Google – che pure con il suo Android è protagonista (oltre che concorrente) di altre sotterranee guerre….

Alessandro del Ninno è avvocato e professore universitario

Joe la Pompe

 

 

 quante volte vi siete fermati ad osservare un cartellone pubblicitario e avete avuto la sensazione di aver già visto in qualche altro luogo del pianeta quello stesso spot? In un mondo che cambia repentinamente come quello della pubblicità è noto che è necessario avere sempre idee nuove, ad effetto ed incisive. Un’impresa creativa che spesso scoraggia i professionisti del settore, i quali perciò ricorrono a qualche trucchetto di plagio, imitando in particolar modo le campagne di successo. Dal 1999, tuttavia non sono tempi facili per la categoria dei fantasiosi dello spot: il sito internet francese Joe la Pompe, infatti, monitora da più di dieci anni tutte le campagne televisive e non, riconoscendo le somiglianze sospette anche a distanze chilometriche: l’obiettivo è infatti quello di indagare e scovare il maggior numero di imitazioni nel mondo delle propaganda.

il sito è diviso per categorie diverse a seconda dei prodotti reclamizzati e riporta i manifesti e i video “incriminati” mettendoli a confronto. Spesso le pubblicità sospette riguardano i medesimi beni da commercializzare, ma in parti del globo molto distanti tra loro, oppure sono riprese da brand affini. Tutti gli esempi sono accompagnati da una doppia spiegazione ironica in lingua inglese e francese, ma il giudizio finale è lasciato all’utente. Basta dare un’occhiata per rendersi conto che alcune delle somiglianze sono davvero troppo ovvie e scontate per non dare nell’occhio.

ironico e sagace, il sito fornisce degli spunti davvero divertenti che aiutano a comprendere anche le tecniche del pubblicitario, professionista che spesso si trasforma in un autentico psicologo e conoscitore delle esigenze dell’utente e del consumatore comune.

sebbene il sito sembri essere costantemente aggiornato, ci sono buone probabilità che qualche spot rubato sia sfuggito al cacciatore di plagi. Gli esempi messi a confronto sono nella maggior parte dei casi sempre in coppia: possibile che non ci sia un terzo professionista del settore che non abbia ripreso alcune di queste idee originali o contraffatte che siano?

una sezione in particolare ospita le pubblicità del tutto uguali uscite nello stesso anno. Proprio questa concomitanza rende molto complicato risalire a quale delle due sia l’originale e quale sia il plagio

 

http://www.joelapompe.net/

 

 

 

Tre giorni di dibattito promossi a Roma il 5,6 e 7 aprile da Melting Pro, Patamu e TVO per la prima volta nella capitale dall’esperienza del BccN Barcellona hanno coinvolto addetti ai lavori e pubblico per una riflessione comune e una call to arms, per così dire, per una costruzione partecipata di nuove regole.
Così si possono riassumere i Copyleft Days, dibattiti e proiezioni di opere libere che si sono svolti in due luoghi simbolo della cultura partecipata romana : Cinema Palazzo e Teatro Valle.

SOPA (Stop Online Piracy Act), IMAIE (Istituto Tutela Diritti Artisti Interpreti Esecutori), SIAE (società Italiana Autori ed Editori) le protagoniste: da un lato la tutela del diritto, dall’altro il diritto di copiare con licenze più o meno aperte come Creative Commons. Terzo punto: l’esclusiva, in Italia, da parte della Siae, nella gestione delle royalties. Tecnicamente, monopolio nell’intermediazione o Collecting. Stato di fatto : il copyleft, cioè l’utilizzo di un’opera d’ingegno, artistica o scientifica, in modo diretto e gratuito, nella rivoluzione della rete libera.

Le proposte concrete elaborate nell’ultima giornata riguardano l’abolizione, come primo passo, dell’articolo 180 della legge sul diritto d’autore, cioè l’abolizione del monopolio da parte della Siae, che nel decreto liberalizzazioni del governo Monti è stato solo parziale.
Riguarda infatti i cosiddetti “diritti connessi” di radio e televisioni o di chi canta, suona, interpreta, recita i brani, le canzoni, i testi e le commedie scritte da altri. Questi potranno essere oggetto di tutela collettiva da parte di altri intermediari in concorrenza con la Siae.
Il modello anglosassone ad esempio consente già l’operato di società di collecting più piccole e indipendenti che fungono in qualche modo da pungolo alle strutture grandi, pure monopoliste di fatto.

La sfida, lanciata dal Valle Occupato coinvolto in prima linea, nonché la proposta più radicale emersa nel dibattito, è quella invece di non ammettere alcun organismo centrale di controllo, seppure in funzione di coordinamento di agenzie più piccole. Sfida che mira dunque ad abolire la SIAE e con essa qualunque intermediario per poter remunerare l’artista in modo immediato e diretto. Questa la sfida nel nascente statuto della Fondazione Teatro Valle Occupato.

Prospettive di applicazione di democrazia e cultura partecipata giungono infatti dall’esperienza del Partito Pirata tedesco, ospite durante la tre giorni, con un rappresentate eletto nel consiglio di Berlino e sondaggi al 10% nelle prossime politiche in Germania. Partito pirata che fonda la partecipazione sull’utilizzo di un software libero a cui hanno accesso 20.000 sostenitori, che permette di seguire e contribuire alla discussione delle leggi del parlamento della città e di elaborare proposte condivise in tempo reale.

Il futuro della democrazia diretta sembra essere la cornice e il naturale contesto in cui anche la redistribuzione delle royalties possa essere più equa. Oggi infatti in Italia i piccoli autori sono svantaggiati a scapito dei grandi, che ricevono maggiori introiti con un meccanismo proporzionale tutt’altro che equo. E non solo l’Imaie, ora anche la Siae ha accumulato 80 milioni di debiti nei confronti degli aventi diritto.

I lavori della prima edizione dei Copyleft Days / Roma CC fest si chiudono ma l’appello è aperto e portato avanti con il Teatro Valle Occupato per prossime iniziative.

Due recenti pronunciamenti, l’uno in fase cautelare del Tribunale di Milano, l’altro della District Court of New York, hanno avuto una ampia eco nel mondo artistico, concernendo entrambi casi di elaborazioni creative realizzate da artisti sulla base di opere di precedenti artisti o fotografi.  In entrambi i casi, pur sotto le diverse normative nazionali, il giudice ha valutato l’esistenza di un diritto di libera ispirazione, citazione e parodia di una opera precedente da parte di un artista che propone una sua “versione” o rielaborazione creativa.
Ed entrambi i giudizi si sono conclusi con la esclusione della “libertà di copiare” anche se da parte di artista, quando l’opera successiva non è che, fondamentalmente, riproposizione dell’opera precedente. 
Altri casi peculiari, da poco decisi, hanno visto soccombente l’artista che realizzava (nella specie con la tecnica della classica pittura ad olio su tela) “copie” di fotografie di altro autore.
Chi segue da vicino il mondo del diritto, quello d’autore non fa eccezione, sa bene che l’ordinamento, come le tecniche, è in continua evoluzione e adattamento alla società, sia questa la società “dell’immagine”, “dell’informazione”, “dei nativi digitali” o dei “social network”.
I giudici sono semplicemente chiamati a dare interpretazione delle norme, coerentemente con il tenore letterale di quste ultime, ma anche con la “ratio legis”, che è quel “valore” degno di tutela, tutela appunto per realizzare la quale vengono predisposte le norme. 
Non sorprende quindi che l’eccesso di “duttilità” e “malleabilità” dell’immagine, una volta digitalizzata e manipolata con programmi di elaborazione fotografica (effetto della tecnica e della diffusione dell’informatica), imponga agli interpreti del copyright una “contro-spinta” maggiormente protettiva di quanto la norma intende proteggere: il risultato creativo di una attività intellettuale artistica. 
Bisogna essere rigorosi nello stabilire quello che si può e – soprattutto NON si può fare con quanto oggetto di “proprietà intellettuale” altri.  Anche se il “manipolatore” è a sua volta Artista, autore di un nuovo e – in parte – diverso prodotto artistico.
In questi contesti, poi, appare cruciale verificare se l’opposizione del “primo” artista all’uso della sua opera quale vera e propria “materia prima” di un’opera del “secondo” artista, sfoci nella “inibitoria”, che significa la nullità della opera derivata, con perfino il sequestro e la sua distruzione, ovvero nell’asserire la nascita di una obbligazione risarcitoria, scenario che si risolve poi nella valutazione del “prezzo del consenso”, ovvero della ricostruzione in base a precedenti o per presunzioni, di “quanto” il primo artista avrebbe preteso dal secondo per l’utilizzo indiscriminato della sua creazione artistica quale “matiére brut” di opera del secondo.  A tale somma sarà rapportata la “condanna”. Tra l’altro la letteratura è ampia nel dimostrare la possibilità di collaborazioni, stabili o ad hoc, tra duetti di artisti che si “associano” per la realizzazione di una opera particolare, che avrà la comune paternità di entrambi.
Si affaccia al mondo della arti visive la ampia tematica del DROIT DE SUITE (diritto di seguito), una specie di “royalty” che, come nella musica, nel cinema e perfino dell’industrial design, l’autore dell’opera percepisce ad ogni transazione economica successiva in percentuale sul compenso pagato dall’utente finale, quello nelle cui mani il diritto di autore “si esaurisce” secondo la chiara definizione degli studiosi del diritto. Chissà se in un futuro prossimo, che la manovra Monti sembra avvicinare di un ulteriore passo, abbandonato il contante e la sua inconfessabile fascinazione per la non tracciabilità e (?) tassabilità, anche la elaborazione creativa di un’opera d’arte altrui, potrà essere compensata con un diritto di seguito che associerà i due autori tra di loro e le loro connesse elaborazioni creative, salvi diversi accordi (scritti) tra di loro.  Per certi aspetti, rispetto alla ipotesi del contenzioso legale, sembra una prospettiva di civiltà e di giustizia cui pensare, oltre questa prima “boutade”.
Paolo Bergmann è avvocato esperto in diritto d’autore